"La Stampa" 22 agosto/Israele e gli attentati contro la pace La speranza non è morta di Giorgio La Malfa Caro direttore, ho sempre ritenuto che il rifiuto di Arafat nel luglio 2000 di sottoscrivere a Camp David l'accordo di pace offerto dall'allora primo ministro Barak costituisse una sostanziale dichiarazione di guerra, nella quale egli si sentiva sostenuto e spalleggiato da vari regimi dell'area, fra cui quello di Saddam Hussein in Iraq. Per questa ragione, dopo attentati tremendi come quello che ha colpito due giorni fa Gerusalemme, non mi sono mai sentito di chiedere a Israele di non adottare le misure di carattere militare da esso ritenute necessarie. In quella situazione era difficile per Israele rispondere in modo diverso da come ha finora risposto il governo Sharon, che, del resto, ha visto per buona parte del tempo la partecipazione dei laburisti. Oggi siamo di fronte ad una situazione diversa e più favorevole. La nuova leadership palestinese appare disponibile alla ricerca di una soluzione pacifica del conflitto. E' cambiata, inoltre, profondamente la situazione complessiva dell'area del Medio Oriente per la fine del regime afghano e di quello iracheno e dunque per il venir meno di possibili sostegni statali all'azione di gruppi armati che operano in Palestina. Questa nuova situazione, se non impedisce il terrorismo, certamente ne muta la natura. Fino all'avvento di Abu Mazen, esso era parte di uno scontro militare vero e proprio, anche se condotto con mezzi non convenzionali. Oggi le bombe non sono più atti di guerra, ma tentativi di sabotare gli spiragli di dialogo che si sono aperti fra le due comunità. Certo, le speranze di pace non bastano a fermare il terrorismo, che anzi intensificherà i suoi sforzi per evitarne il consolidamento. Questo del resto è ciò che è avvenuto in altri conflitti come quello che ha insanguinato per decenni l'Irlanda del Nord, dove il terrorismo è sopravvissuto per qualche tempo all'apertura del dialogo fra le parti. Per il conflitto israeliano-palestinese è prematuro parlare come se si fosse già a questo stadio. Ma certo la situazione non è più quella di un anno o di sei mesi fa. Per questo è importante difendere e rafforzare la cosiddetta "road map", che non è affatto "carta straccia" come si affrettano a dire taluni commentatori per i quali è palese la speranza che gli sconvolgimenti in Medio Oriente dimostrino che le azioni intraprese contro il regime afghano prima e contro Saddam Hussein dopo erano non solo sbagliate, ma destinate ad aggravare il conflitto israelo-palestinese. Per questo oggi è legittimo chiedere al governo israeliano, che del resto appare consapevole della posta in gioco, di reagire con prudenza e di non prestarsi al tentativo di annullare ogni speranza di pace. La guerra all'Iraq resta una decisione opportuna anche se per l'America essa comporta costi umani e rischi politici tremendi. La speranza di avviare a soluzione il conflitto israelo-palestinese passa attraverso l'esito di essa. Bisogna fare di tutto per consolidare i primi passi in questa direzione. |