Declino economico italiano: una storia che parte da lontano, dopo l'era del boom/All'esplosione salariale si è affiancata negli anni Settanta la crisi petrolifera, che aprì una falla nei conti

Dalla svalutazione competitiva fino alla moneta unica

Quando è iniziato il declino economico italiano? Tutti gli italiani sembrano rassegnati all'idea che il nostro Paese abbia progressivamente e irrimediabilmente perduto la capacità di competere con le altre potenze industriali. La responsabilità di tutto questo oggi è attribuita all'attuale governo Berlusconi, mentre i fedeli del Biscione incolpano il passato governo "comunista". Ebbene, mi sento di sollevare entrambi da questa "colpa", o meglio, sono certo che non siano da ricercare nell'ultimo decennio le cause reali del declino industriale. Probabilmente ci si può dolere che questi governi non abbiano saputo approntare le riforme in grado di rilanciare la crescita. Ma ci siamo chiesti dove nascono i problemi economici del Paese?

Fior di economisti hanno studiato le cause del declino economico del Paese e in gran parte affermano che la perdita di competitività ha radici lontane. E' sufficiente ripassare con la memoria le tappe della trasformazione italiana da arretrata e devastata economia del dopoguerra in potenza industriale di livello mondiale per svelare paradossalmente la spiegazione delle attuali condizioni.

L'inizio della crisi risale all'anno 1963, quando il processo di modernizzazione industriale dell'Italia, ribattezzato poi "miracolo economico", si tramuta in "esplosione salariale" innescando una spirale di inflazione e crisi fiscale. La conseguenza drammatica fu la fuga dei capitali italiani all'estero, la crisi della bilancia dei pagamenti e la stretta creditizia. In quel periodo si accentuò l'anomalia italiana dello "Stato imprenditore" che indirizzava gli investimenti delle imprese pubbliche nella siderurgia e nella petrolchimica realizzando stabilimenti nel Mezzogiorno, lontano dal contesto industriale già avviato. La spesa pubblica fu orientata a tutti i costi alla creazione di nuovi posti di lavoro, che l'industria privata non produceva più.

Nel 1973 sopraggiunse la crisi petrolifera, mettendo in dubbio l'intera esperienza industriale italiana del dopoguerra. L'affannosa e costosissima ricerca di materie prime aveva aperto una falla gigantesca nella bilancia dei pagamenti, per sanare la quale la classe politica si inventò la "svalutazione" della lira. Per l'Italia, che aveva fino ad allora fallito il tentativo di entrare nella competizione dei settori di punta dell'industria mondiale, tutto sembrava sistemato, ma era evidente che il circolo vizioso "inflazione-svalutazione" era solo una soluzione superficiale ai mali cronici dell'economia. Lo stato imprenditore decise di orientare l'innovazione verso un'industrializzazione leggera, caratterizzata da tecnologie a basso contenuto tecnologico e di capitale. La micro-dimensione delle aziende italiane non incentivava gli investimenti in R&S e spingeva anche questi verso quei settori produttivi che francesi, tedeschi ed inglesi stavano progressivamente abbandonando, per rivolgersi a produzioni high-tech.

La terza tappa fondamentale corrisponde proprio alla cessazione della pratica delle svalutazioni competitive, imposta alla politica dalla necessità di una maggiore stabilità monetaria. La scellerata ricetta della classe dirigente fu allora il ricorso incontrollato, delinquente e corrotto al "debito pubblico". Chi sbandierava le teorie di Keynes per giustificare lo sperpero pubblico ha la pesantissima responsabilità di avere segnato negativamente e per interi decenni il futuro dell'economia italiana. Infatti, il concomitante rialzo dei tassi di interesse trasformò il debito pubblico in un "buco nero", al punto che la spesa per interessi negli anni 80' superava la crescita del PIL. Quando i tassi tornarono ad abbassarsi anche i conti pubblici tornarono sotto controllo.

L'ultima fase decisiva per l'economia nostrana è l'avvio del processo della moneta unica. La fissazione dei criteri di Maastricht (che oggi sono stati finalmente riformati) e la UEM hanno permesso all'Italia di inserirsi nel gruppo dei Paesi virtuosi, ma ha mostrato inequivocabilmente la debolezza del nostro sistema industriale. Dal settembre 2001 tutto l'Occidente è piombato in una fase di bassa crescita e recessione. Le imprese tessili italiane sono indebolite ed esposte alla concorrenza mondiale, il peso del debito pubblico ci impedisce di liberare le necessarie risorse per il rilancio economico, le chiusure ideologiche su OGM, privatizzazioni e liberalizzazioni ritardano l'evoluzione industriale, la burocrazia e gli interessi particolaristici continuano a stringere la morsa sulla libertà d'impresa.

In questo stato di cose i Repubblicani hanno la coscienza e la lungimiranza per proporre agli italiani ulteriori sacrifici, nella dolorosa convinzione che ormai la via per riavviare la crescita sia obbligata. Il sistema industriale italiano è fragile e gravato da fortissimi handicap: la carenza di infrastrutture, la scarsa preparazione imprenditoriale e professionale, un basso livello di occupazione, un'inefficace connessione fra centri di ricerca e imprese. In questa situazione siamo costretti ad assistere ai cosiddetti "grandi imprenditori" italiani che preferiscono rifugiarsi nei mercati "protetti" delle telecomunicazioni e dei trasporti (vedi Tronchetti Provera, Berlusconi, Benetton), dove è ancora possibile accumulare grandi fortune, per poi invocare dai microfoni di Confindustria la necessità di maggiore concorrenza. Non si può pretendere un mercato del lavoro più flessibile, se i primi a sfruttare la rigidità del nostro sistema economico sono quelli che dovrebbero creare nuova occupazione. La grande industria sta ahimè scomparendo, ma è inutile sostentare col denaro pubblico chi lo utilizza solo per sostituire il capitale di rischio, invece che aumentare gli investimenti nelle proprie imprese. I grandi imprenditori italiani devono essere finalmente lasciati di fronte alla concorrenza globale, e forse non è una tragedia se alcuni investitori stranieri intendono prenderne il posto.

Allora, chi merita l'aiuto del governo? I numerosi piccoli imprenditori che, al contrario dei grandi industriali, sotto il pungolo della concorrenza internazionale hanno saputo prosperare e spostarsi verso i settori di eccellenza.

Qual è la ricetta per uscire da questo declino? Una radicale inversione di rotta nella politica economica. Chiediamo di accantonare il nazionalismo economico, separare nettamente politica e impresa, liberalizzare compiutamente i settori dell'energia, delle telecomunicazioni e dei trasporti, semplificare il sistema di norme e tributi che rendono onerosa qualsiasi attività imprenditoriale, favorire la crescita qualitativa dei numerosi gruppi di imprese attraverso delocalizzazione e internazionalizzazione della produzione, garantire attraverso nomine adeguate l'assoluta indipendenza delle Authority di regolazione dei mercati, varare dei piani di investimenti per la ricerca pubblica e privata, incentivare l'accesso alle università scientifiche, sostenere i settori della produzione italiana di eccellenza, ridimensionare i poteri di chi si oppone al cambiamento (sindacati, ordini professionali e lobby), aprire il sistema bancario alla concorrenza e agli investitori stranieri e infine garantire efficienza al sistema legislativo e giudiziario posto a difesa della proprietà privata.

Il declino è reale e il tempo non è galantuomo, ma l'Italia ha le potenzialità per risalire la china. I Repubblicani hanno da tempo compreso l'emergenza che attanaglia il Paese e invocano un cambiamento radicale, ma nessuna delle coalizioni guidate da Prodi e Berlusconi ha le capacità per garantire questa prospettiva.

Paolo Montesi Direzione nazionale FGR - Cesena