Sintesi dell'intervento del viceministro dell'Ambiente al Salone internazionale di biotecnologie che si è svolto a Padova dal 20 al 22 aprile/Scienza e politica: due termini non sempre in armonia. Cosa c'è all'origine di questa sfasatura che fa sì che il potere spesso sia insofferente nei confronti dello sviluppo della ricerca Quelle conseguenze sbagliate che derivano dall'inseguire l'onda emotiva del momento Pubblichiamo ampi estratti dell'intervento del viceministro dell'Ambiente presentato a "Bionova", Salone internazionale di biotecnologie e bioingegneria, Padova, 22 aprile 2005. di Francesco Nucara Che la decisione politica non abiti più il solo "palazzo" della politica è verità che abbiamo appreso, ormai, da tempo. Che, poi, i suoi nuovi domicili siano molteplici, spesso assai distanti tra loro e, talora, persino difficili da identificare, è fenomeno tutto odierno, di tangibile oggettività. E', forse, la politica divenuta servente e cedevole, rispetto ai protocolli della scienza ed ha soltanto il ruolo di scortare -ma senza poter, in realtà, mai sorvegliare- mezzi, fini, movenze della scienza? Sembrerebbe proprio di sì, perlomeno a scorrere le 30 Azioni che compongono il Piano elaborato dalla Commissione europea quale strategia, per l'Europa, nell'ambito de Le scienze della vita e la biotecnologia. La conferma è in una serie di rilevanze, che la Commissione stessa pare considerare, secondo "indici di priorità", per realizzare il programma in questione. Voglio dire che, se all'ordine progressivo delle Azioni da compiere si annette una gradazione d'importanza, le preminenze tematiche sembrano -tutte- privilegiare il momento della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico, piuttosto che l'esercizio della direzione e del controllo nell'egemonia della politica. Dunque, la Politica pare considerare che la condizione imprescindibile per la governance sia la Ricerca, la formazione dei ricercatori, l'infrastruttura scientifica, il sostegno di specialistiche competenze. Il ricercatore è in cima alla priorità sociale e politica dell'Europa di oggi. La quale ha compreso pienamente che senza ricerca ed innovazione non c'è futuro e senza investimento nel futuro c'è solo inarrestabile declino. Qui la politica è allora chiamata a dover riconoscere che, perlomeno nell'Italia del secolo appena trascorso, lo sviluppo delle specifiche competenze tecniche ha costruito una sorta di "rete autogestita" della comunità scientifica, che si è retta ed ha proseguito il proprio sviluppo in maniera quasi autonoma rispetto all'apporto politico-istituzionale o, al più, con la sola attenzione, per interesse, dell'imprenditoria privata. Scarso stimolo agli investimenti Questa sorta di "autosufficienza" della scienza ha poco o nulla stimolato gli investimenti nella ricerca da parte dei finanziamenti pubblici: ed ha alimentato l'illusione che l'investigazione scientifica potesse correre su un binario parallelo ed autonomo (finanziariamente, economicamente) rispetto a quello percorso dalla politica e che, anzi, ciò fosse congeniale, per molti aspetti, a ridimensionare il potere della scienza. Sappiamo come le cose siano andate assai diversamente: la Scienza ha assunto autonomamente un proprio assetto divulgativo/comunicativo che le ha consentito di diffondere le proprie scoperte "saltando" la mediazione della Politica. Così tutti abbiamo fruito dei nuovi "oggetti" della scienza: dalla rivoluzione informatica a quella mediatica; dalla tecnologia dei trasporti a quella applicata alla salute umana, il progresso scientifico è stato, innanzitutto, un progresso di democrazia, nel senso pieno del termine, come possibilità di usufruire di tutto (o di gran parte) da parte di tutti (o di gran parte). E' avvenuto, nondimeno, che la Politica abbia, proprio per questo, cominciato a nutrire una sorta di insofferenza per il versante tecnologico: timorosa, soprattutto, della impopolarità cui obbliga, spesso, il dover seguire, fino in fondo, gli esiti della Scienza: di fronte agli incubatori dei ritrovati tecnologici, la Politica ha assunto un atteggiamento generalmente ambiguo, di preconcetto "sospetto", specie per il dubbio continuo circa gli effetti sul consenso di cui essa si nutre. Così è accaduto per il nucleare, così accade oggi per le biotecnologie, perlomeno in Italia. Questo Paese si è condannato ad un perenne debito industriale, ad una perenne mestizia delle infrastrutture del Mezzogiorno perché la Politica ha preferito recepire un'emotiva risposta popolare di diniego, anziché sforzarsi di spiegare, ad esempio, che le centrali francesi appena oltre il confine, non sono, alla fine, più rassicuranti di Montalto di Castro; o che, ormeggiata in permanenza nel porto di Napoli, è una portaerei americana il cui reattore nucleare è pari, per potenza, a circa un terzo dell'ultimo impianto spento dopo il referendum: e così via. La tentazione elettoralistica Vale a dire: la politica ha seguito non già i paradigmi scientifici e la loro continua evoluzione; e neppure ha voluto discernere l'articolazione del processo di analisi dei rischi; viceversa, ha passivamente aderito o rigettato, secondo una modalità assai manichea, a sua volta condizionata da una logica di conferma elettorale. Così, il nucleare fu osteggiato dapprima per i meschini interessi del cartello degli industriali elettrici (che portò ai quattro anni di carcere di Felice Ippolito, difeso -in una delle pagine più nere della nostra democrazia- da La Voce Repubblicana); successivamente, per assecondare il moto immediato di un precipitoso rifiuto da parte di una società civile, scarsamente educata ad esercitare controlli razionali e costanti delle scelte politiche. Fu un cedimento a quella visione della politica fondata su popolarità e plebiscito, incapace di scelte impopolari ma lungimiranti, tesa ad inseguire la sicurezza dell'opinione comune, per quanto effimera, ad ogni costo. Non è la Politica in ruolo servente rispetto alla Scienza, ma la sua esatta antitesi: è la Politica al servizio del pregiudizio che offende la Scienza, di cui prospetta solo i rischi, ne mina le certezze, ne pretende, ingenuamente, il rischio zero. Tutto questo, secondo un copione già visto, si sta ripetendo oggi per gli OGM e per le biotecnologie in generale. La politica -parlo di quella italiana, in particolare- rischia di essere ancor più ottusamente preclusiva di quanto lo sia stata per il nucleare: anziché esigere dalla comunità scientifica una seria mappatura dei vantaggi e dei rischi/svantaggi del biotech; anziché esaminarne le implicazioni economiche (e dunque le incidenze sociali); anziché ricercare i percorsi del consenso sugli standard etici minimi o sulle migliori prassi -per far sì che cellule staminali, biobanche, esperimenti di genetica, OGM non divengano altrettanti spettri sociali- la Politica ha fatto un passo indietro. Ha percepito che la disinformazione sociale generava rifiuti generalizzati, quanto immotivati e, ancora una volta, si è schierata, con il più forte (la "maggioranza" silenziosa), nella posizione più comoda: quella del "no" a tutto. La sagra del qualunquismo Ed è stata la sagra del qualunquismo, della politica degli slogan ("solo agricoltura convenzionale e biologica, per la salute dei nostri figli"; "solo prodotti tipici, per la conservazione delle nostre risorse" e così via). Con gli slogan, però, non si decide la fattibilità di una opzione scientifica e neppure si creano promozione e ricerca. Si determina soltanto una spaventosa stagnazione, in un Paese che, quanto ad innovazione e competitività, sembra imboccare un declino malinconico, nonostante che, nel secolo passato, le più importanti scoperte scientifiche siano venute da italiani o da partenariati di ricerca italiani. E' in corso, in questi giorni, il Forum biennale di Lione, Biovision, dedicato alle biotecnologie. Occasione rilevante di dialogo tra gli esponenti del mondo scientifico, dell'industria, della politica nonché delle agenzie delle Nazioni Unite e dei rappresentanti delle organizzazioni non governative. Il fine è, ancora una volta, la verifica delle molteplici potenzialità applicative che -ad ogni titolo di responsabilità- le biotecnologie offrono nei fondamentali settori della salvaguardia della salute, della tutela ambientale e della evoluzione dell'alimentazione. E a questo proposito, anche il più disattento degli italiani dovrebbe rammentare che, come ha sottolineato qualcuno, il biotech è "tricolore": perlomeno nei suoi contenuti, molto meno, purtroppo, nei suoi intenti programmatici. Così il "verde" simboleggia le piante transgeniche e, mentre permane a tutt'ora, fortemente contestato in Europa, si espande a macchia d'olio in Paesi sino a ieri economicamente depressi, segnandone significativamente le tappe di uno sviluppo finalmente "sostenibile": certo, in un Paese come l'Italia, laddove l'agricoltura ha comunque un peso rilevante nel contesto dell'economia nazionale, le agrobiotecnologie avrebbero dovuto e potuto ricoprire un ruolo strategico di prim'ordine nel sostegno e nel rilancio dei nostri prodotti. Le politiche governative -che io stesso non ho condiviso- non hanno appoggiato questo indirizzo mentre il diffuso atteggiamento di sospetto da parte del cittadino nei riguardi degli alimenti geneticamente modificati è retaggio, per dirla con Gilberto Corbellini, di credenze e di abitudini che, rientrando nell'alveo della "antropologia alimentare", risultano profondamente radicate. Il biotecnologico "bianco" è quello che concerne le attività dei batteri tanto preziose quanto incontestate e pressoché universalmente accettate. Infine il "rosso" è l'emblema dell'ingegnerizzazione in medicina. Nessun problema e grandi attese sino a che non si toccano i temi delicati della clonazione. Rivoluzione prossima ventura Nel loro complesso, le Scienze della vita e le Biotecnologie costituiscono, recita la Commissione europea, dopo le tecnologie dell'informazione, "la prossima rivoluzione tecnologica nell'economia della conoscenza, creatrice di nuove possibilità per le nostre società e le nostre economie". Adesso, l'Europa -e l'Italia non può chiamarsi fuori- è posta dinnanzi ad una scelta politica indefettibile: se accettasse un ruolo passivo subirebbe le implicazioni dello sviluppo di queste tecnologie da parte di altri Paesi. Ciò è tanto vero che il Piano di azione non rifiuta affatto l'innovazione delle biotecnologie in ragione di una generica tutela ambientale, bensì correla quest'ultima alle necessità della crescita economica suggerendo un modo politicamente serio di affrontare l'innovazione scientifica. Che, insomma, si abbandonino le definizioni con le quali amano fregiarsi alcune Regioni italiane ("OGM free", come già "Territorio denuclearizzato"), per sostituire all'ottusità ideologica una seria attività di identificazione precoce dei rischi emergenti: ciò speriamo preluda, anche per l'Italia, ad una inversione di tendenza, inaugurando un circolo virtuoso in forza del quale le risorse destinate all'innovazione ed alla ricerca non siano più briciole di cui ci si ciba dopo che gli altri convitati hanno lautamente consumato la propria abbondante porzione. |