Intervento al Cn dell'Edera/Italia: come ci collochiamo per gli osservatori internazionali Debolezze strutturali che ci portiamo dietro da anni Intervento al Consiglio nazionale del Pri, Roma, 2 luglio 2005. di Riccardo Gallo Le difficoltà che il provvedimento varato dal governo sulla competitività incontra in questi giorni in Parlamento e le polemiche che ne sono seguite consigliano di tornare sulle cifre relative alla posizione competitiva del nostro paese in campo mondiale. Tutti i tre più noti indicatori – il World Competitiveness Report dell'IMD (International Institute for Management Development), il Growth Competitiveness Index e il Business Competitiveness Index del WEF (World Economic Forum) – mostrano un sensibile recente peggioramento della posizione dell'Italia nelle classifiche mondiali. Più precisamente, nella graduatoria fatta su 60 paesi dall'IMD l'Italia è passata dal 32° posto del 2000 al 33° del 2001, al 34° del 2002, al 41° del 2003 al 51° del 2004. Se si analizzano separatamente i maggiori fattori di competitività, si vede che: a) l'andamento dell'economia era peggiorato lievemente tra il 2000 e il 2001 e si è poi stabilizzato sul 39° nel 2003-3004; b) l'efficienza del settore pubblico, che fino a un paio d'anni fa poneva l'Italia a due terzi della graduatoria, è decisamente peggiorata nel 2004 (56° posto), anche in conseguenza delle politiche fiscali, nelle quali il nostro paese è l'ultimo in classifica; c) l'efficienza del settore produttivo ha fatto precipitare l'Italia dal 31° posto nel 2002 al 54° nel 2004, anche in conseguenza del sottofattore Mercato del lavoro (59°) e della Cultura manageriale (57esima). Su quest'ultimo punto, non possiamo non esprimere preoccupazione noi repubblicani, ricordando che storicamente il Partito ha sempre attinto voti dal bacino dei dirigenti d'azienda; d) nelle Infrastrutture nell'ultimo biennio la posizione dell'Italia è scesa dal 26° posto del 2000 al 37° del 2004. Indicazioni simili vengono dai due indici del WEF. Secondo il Growth Competitiveness Index, il nostro Paese è sceso dal 41° al 47° posto in graduatoria, per colpa non solo e non tanto dell'ambiente macroeconomico (38°) quanto delle Istituzioni pubbliche (48°) e della Tecnologia (50°). Secondo l'altro indice, il Business Competitiveness Index, l'Italia ha perduto dieci posizioni, essendo passata dal 24° a 34° posto in due anni. Tutte questi indici mettono in evidenza come la progressiva perdita di competitività del sistema produttivo italiano, in un sistema sempre più aperto e quindi esposto ai raffronti tra i costi di produzione nei diversi paesi, sia causa del peggioramento delle condizioni economiche del paese. Non si tratta quindi di un fenomeno congiunturale, ma di un fenomeno strutturale da tempo in essere. Occorre rimuovere le cause delle continue perdite di competitività e stimolarne poi la ripresa relativa rispetto agli altri produttori sulla scena internazionale. Un'azione di tal genere deve essere rapida, nei limiti del possibile, ed incisiva e non può non implicare un coinvolgimento, anche se solo a livello di confronto e consultazione, delle parti sociali come Confindustria e Sindacati. Più che la lezione della "nota aggiuntiva", questo punto mi fa tornare in mente il tentativo impostato da Ugo La Malfa nel 1975, vicepresidente del governo Dc-Pri con delega all'economia, dopo la prima crisi petrolifera di dicembre 1973 e inizio '74 e dopo il congresso nazionale di Genova. La Malfa avvertì che la crisi era strutturale e che bisognasse realizzare un grande sforzo di mobilità nell'industria, favorendo i settori poco consumatori di energia e consentendo che quelli energy-intensive e in difficoltà alleggerissero la loro presenza produttiva. Per far ciò, La Malfa avvertì che protagonisti dovevano essere i soggetti responsabili della politica industriale, dalla Confindustria ai Sindacati, all'Abi, e perciò avviò una serie di consultazioni a Palazzo Chigi. Il prodotto fu un ddl sulla riconversione industriale che il governo non ebbe tempo di difendere in Parlamento, perché cadde il giorno dopo sull'azione di sfiducia da parte del Psi. Negli anni che seguirono si tentò nel campo della politica industriale la cosiddetta politica per settori produttivi, con la legge 675 del 1977, non votata dal Pri. Era questa una politica antitetica a quella ideata da la Malfa nel 1975, perché era incentrata su una concezione centralista e un po' dirigista, era mirata al ripristino delle condizioni "quo ante", settore per settore, senza cioè l'introduzione di sollecitazioni dinamiche intersettoriali che rappresentassero una risposta allo shock esterno al sistema. E difatti questa politica naufragò miseramente. Approccio di tipo "orizzontale" Negli anni '90 è stata poi impostata una politica industriale per fattori produttivi, mirata a liberalizzare i relativi mercati e a tutelare la concorrenza. Di qui sono nate le diverse authority che oggi conosciamo e apprezziamo. Ma anche questa politica di tipo orizzontale non è stata sufficiente, innanzitutto perché il policy maker non ha la percezione della misura delle correzioni da introdurre per risolvere i problemi delle diverse fattispecie industriali. Cosicché, magari viene varata una riforma del mercato di un certo fattore produttivo (lavoro, energia) ma poi i benefici per le singole industrie si rivelano insufficienti e non risolutivi. Anche per questa ragione, la Commissione europea nel gennaio 2003, sotto la presidenza di Romano Prodi, varò un documento di politica industriale con un'impostazione orizzontale, attenta ai mercati, ma con applicazioni anche settoriali. Era insomma una specie di cauto ritorno all'esperienza fallita di fine anni settanta. La condizione di diminuita competitività dell'Europa suggerisce che la terapia va cercata altrove. Nel segno di Ugo La Malfa Memore del tentativo di Ugo La Malfa nel 1975, nei mesi scorsi, nella mia qualità di presidente dell'Ipi, Istituto per la promozione industriale, ho finanziato e organizzato un progetto di ricerca di politica industriale, articolato per soggetti responsabili della politica industriale (sistema delle imprese, sistema finanziario, mondo del lavoro, sistema degli intermediari nella ricerca e innovazione tecnologica, sistema paese fatto da infrastrutture materiali, giuridiche e amministrative). Questo progetto coinvolge un centinaio dei migliori economisti italiani, scelti per competenza nei vari campi senza pregiudizio verso le loro idee politiche. Conclusioni e proposte precise arriveranno in autunno e sarà mia cura presentarle personalmente in diverse città italiane. Al centro del progetto ci sono, come ho ricordato, le due questioni della produttività e della ricerca e innovazione. Tra le principali cause dell'insoddisfacente dinamica della produttività si ricordano: a) le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato il mercato del lavoro dalla seconda metà degli anni novanta. Il Pacchetto Treu e la Riforma Biagi hanno generato un'elevata flessibilità all'interno di un mercato noto per la sua elevata rigidità. La sostanziale moderazione salariale dell'ultimo decennio, le riforme di flessibilità del mercato del lavoro, le forme di incentivazione all'occupazione (credito all'imposta) si sono tradotte in una decelerazione del costo del lavoro e hanno favorito la crescita dell'occupazione pur in un contesto macroeconomico di modesto o assente sviluppo. Questo processo ha coinvolto soprattutto figure (le donne) e settori (servizi di tipo tradizionale) a più bassa produttività; b) le caratteristiche del modello di specializzazione; in particolare recenti analisi empiriche evidenziano che la flessione della produttività è risultata (negli anni 1991-2001) più elevata proprio all'interno dei settori manifatturieri tradizionali che, come noto, hanno un peso rilevante all'interno della nostra struttura produttiva ed hanno un basso contenuto tecnologico; c) la dimensione ridotta del settore tecnologico e la sua limitata capacità di generare posti di lavoro ad alto valore aggiunto e ad elevata produttività. È proprio nei settori high-tech che si sono invece verificati tassi di crescita significativi della produttività del lavoro. Molteplici cause In sintesi, la flessione della produttività del lavoro, in Italia, è attribuibile all'interagire di una serie di cause: alcune relativamente nuove, legate a loro volta agli effetti sull'occupazione generati dal Pacchetto Treu e dalla Riforma Biagi; le seconde hanno invece un'origine lontana e sono imputabili ad un "effetto struttura" del nostro modello di specializzazione produttiva troppo sbilanciato verso settori tradizionali, scarsamente utilizzatori delle più moderne tecnologie dell'informazione e della comunicazione. L'obiettivo comunitario di Lisbona, com'è noto, fissa che l'Europa nel 2010 sia l'aera geopolitica mondiale più dinamica per innovazione tecnologica, che la spesa annua in R&S di ogni paese membro sia non inferiore al 3% annuo del prodotto lordo e che questo 3% sia per un terzo spesa dello Stato e per due terzi del sistema delle imprese private. Quando quest'obiettivo fu stabilito, la spesa in R&S in Italia era pari allo 0,9% del pil ed era fatto per il 90% circa dallo Stato e per il 10% dal settore privato. I paesi scandinavi erano gli unici a stare già sopra quel limite. Francia e Germania stavano un po' sopra il 2%, ma negli anni che sono seguiti invece di aumentare il loro impegno, l'hanno diminuito. In Italia, dai dati dell'ultimo censimento è emerso che la stragrande maggioranza delle imprese è di dimensioni micro e non ha la tecnostruttura necessaria a fare alcun tipo di ricerca. Dunque, forse, l'obiettivo di Lisbona dovrà essere spostato più in là nel tempo e in Italia ci si dovrà dedicare soprattutto al trasferimento tecnologico dai centri di ricerca di eccellenza, che pure esistono nel nostro paese, alle piccole imprese. Per il partito e per il Paese, avere oggi Giorgio La Malfa ministro del Governo per le Politiche comunitarie, incaricato di coordinare i lavori per realizzare l'obiettivo di Lisbona, è motivo di orgoglio e di speranza. Anche su quest'ultimo versante, sotto la mia presidenza, anche l'Ipi è molto impegnato attraverso il Riditt (Rete italiana per la diffusione dell'innovazione e il trasferimento tecnologico alle imprese). Quest'esperienza conferma che hanno ormai assunto grande rilievo le politiche industriali combinate con quelle della ricerca e del territorio, che la strumentazione d'intervento rientra nelle competenze delle Regioni. Dall'angolo visuale del mio impegno nel campo dell'economia e politica industriale, trovo quotidianamente conferme della lungimiranza dell'impostazione politica del nostro partito. |