I repubblicani alla Costituente/In un convegno a Bologna si è parlato di Spallicci e Macrelli

Seppero trovare un equilibrio fra due diverse realtà

Relazione presentata al convegno "Il pensiero dei costituenti repubblicani dell’Emilia - Romagna alla luce delle attuali prospettive di riforma della Costituzione". Bologna, venerdì 10 dicembre 2004.

di Francesco Nucara

Parlare del ruolo avuto dalla componente repubblicano-romagnola nei lavori dell’Assemblea Costituente e nella costruzione dell’Italia repubblicana vuol dire individuare alcuni specifici filoni di intervento dei due rappresentanti dei repubblicani di Romagna, Aldo Spallicci e Cino Macrelli, all’interno di quel più vasto apporto che fa dei gruppi repubblicano e laico-azionista il perno sul quale si aggregarono le forze del compromesso storico, i cattolici e i marxisti, per dar luogo alla Carta costituzionale della Repubblica, essa stessa compromesso di alto profilo giuridico-istituzionale.

I repubblicani di Giovanni Conti, Tomaso Perassi, Oliviero Zuccarini ed altri parteciparono ai lavori della Costituente avendo già elaborato la forma del superamento della contrapposizione tra Stato unitario e Stato federale nel modello fatto proprio poi dai Costituenti dello Stato regionale.

Analogamente è da attribuire alla componente azionista, di cui Ugo La Malfa era esponente allora, il disegno di una moderna democrazia industriale. Come ebbe a osservare Giovanni Spadolini nell’81: "Nel campo dei diritti economici e sociali, la Costituzione anticipò [….] una società industriale avanzata in assoluta contraddizione con la realtà e le rovine del dopoguerra.

Il pluralismo economico fu uno dei cardini del disegno dei costituenti; e in questa battaglia decisivo fu l’impegno della terza forza laico-repubblicana rispetto alle forze marxiste, alle forze cattoliche".

Le tesi di La Malfa, soprattutto la lotta ai monopoli, trovarono piena rispondenza nel gruppo repubblicano e in particolare nei romagnoli Spallicci e Macrelli attenti a preservare un precario equilibrio tra cooperazione, artigianato e mezzadria, tra città e campagna.

Laureato in medicina all’Università di Bologna nel 1912 (era nato a Forlì nel 1886) con un forte senso della missione umanitaria della sua professione, Aldo Spallicci si era nello stesso anno arruolato come volontario in difesa dei greci nella guerra greco-turca.

Nel ‘14 fu volontario con i garibaldini in difesa della Francia dalle potenze centrali e dal 1915 sul fronte del Carso. Antifascista, più volte arrestato dalla polizia del regime, partecipava alla resistenza in Romagna dove poi fu eletto nel ‘46 all’Assemblea costituente.

Aldo Spallicci fu anche grande poeta dialettale, "il più grande poeta della Romagna dopo Pascoli", come ebbe a scrivere Marino Moretti all’indomani della sua morte nel 1973.

Incisiva è la sua partecipazione alla stesura di quello che sarà l’art. 32 della Costituzione.

In un intervento nella seduta del 21 aprile ‘47 illustrava a nome del gruppo medico parlamentare composto di rappresentanti di tutti i partiti una formulazione del primo comma che sottolineava il diritto dei cittadini alla salute e il dovere della Repubblica di tutelarne il mantenimento.

E nello stesso intervento illustrava poco dopo una concezione dell’assistenza sanitaria "che non trasformi i malati in postulanti ed i medici in fiscali". E continuava: "Dunque, per il medico, la "pietà che l’uomo a l’uom più deve" e per tutti: una salus publica, che deve essere suprema lex; salus che non sia soltanto nel senso politico, ma anche una valetudo affettiva".

Di nuovo troviamo un significativo intervento di Aldo Spallicci nella discussione sul futuro art. 37 sulla protezione del lavoro femminile e minorile.

"Noi – afferma il deputato romagnolo nella seduta del 7 maggio ‘47 – onorevoli colleghi, abbiamo sostituito alla figura del civis la figura del lavoratore, abbiamo rinunciato quasi a quella che era una figura così cara ai nostri nonni repubblicani, quella del cittadino; abbiamo tolto quasi dalla comunità della civitas l’uomo per introdurlo nella casa del lavoro, e questa vorremmo consacrare come un tempio". E poco oltre: "Questa è provvidenza e assistenza sociale del nostro tempo. Non è il crudele allontanamento della madre cui non sarà più dato riconoscere il figlio […] ma è pure una parentesi di rinuncia al governo dei figlioli che si ripete sei volte alla settimana durante le ore di lavoro.

Noi, adunque, inseriamo nella nostra Carta costituzionale questo articolo, che io vedo completato da un emendamento non mio ma al quale sottoscrivo perché pone l’accento sulla funzione materna della donna, un emendamento che porta la firma della onorevole Federici Maria e dell’onorevole Medi, il quale dice: "Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna".

Il gruppo repubblicano partecipò ai lavori preparatori della Costituzione forte di un progetto di costituzione elaborato nel 1943 durante la lotta clandestina. Alcune delle scelte fondamentali si imporranno poi in sede costituente. Così per la scelta del modello parlamentare bicamerale e così pure per quella delle autonomie.

Il gruppo repubblicano fu fortemente impegnato su quest’ultimo tema.

La posizione dei repubblicani scaturiva d’altronde da un’elaborazione centenaria, che aveva visto l’iniziale contrapposizione tra il federalismo di Cattaneo e l’unitarismo di Mazzini, che in realtà non escludeva affatto un sistema di autonomie, dissolversi ai primi del Novecento nella sintesi del repubblicano Arcangelo Ghisleri, risolta nel rapporto, tutto interno allo stato unitario, tra centralismo e autonomie locali. Alla Costituente, al centro del compromesso fu la salvaguardia degli interessi del Mezzogiorno – era questo del resto il punto focale dell’opposizione del comunisti al regionalismo – salvaguardia poi ribadita nel terzo comma dell’art.119.

Certo il disegno repubblicano contemplava ben altre e più radicali soluzioni, in materia di semplificazione della burocrazia centralistica, di riformulazione delle competenze dei comuni e di abolizione delle province, né avrebbe previsto condizioni speciali per talune regioni.

Anche in questo caso i repubblicani si piegarono alle ragioni del compromesso con l’orgoglio tuttavia di saper interpretare col metro del lungo periodo gli interessi del Paese.

I partiti come interpreti del popolo

Nella seduta del 4 giugno ‘47 Aldo Spallicci affermava ad esempio: "Non saremmo arrivati neanche all’indipendenza e avremmo lasciato Giuseppe Mazzini e la sua Giovane Italia a isterilirsi in una lotta che sarebbe rimasta un martirologio eroico soltanto. Mentre il mito dell’unità bandito da quegli eletti è venuto svolgendosi man mano nella realtà della storia.

Se i partiti, se i rappresentanti del popolo non hanno la coscienza di essere gli antesignani e gli interpreti dei bisogni anche inespressi del popolo, interpreti di una nuova concezione della vita e della storia nazionale, hanno fallito al loro compito.

Alcuni si preoccupano di non turbarne l’unità e di non perderne il favore. Qui ci si deve preoccupare se la riforma giovi o non giovi al Paese".

Certo Spallicci avrebbe voluto vedere la sua Romagna separata dall’Emilia, riconosciuta nella sua peculiarità culturale, linguistica e storica. E tuttavia egli conclude: "La Romagna rimane anche se si vorrà farne con l’Emilia una sola regione. E libera all’aria e al vento la bandiera della sua passione per tutte le cause giuste."

Sullo stesso tema – in particolare sulla sovrapposizione delle competenze della provincia su quelle regionali e sulla potestà legislativa delle Regioni in materia di autonomia finanziaria, la cui definizione non chiaramente formulata nel testo costituzionale veniva erroneamente, secondo il giudizio dei repubblicani, rinviata ad una legge costituzionale ulteriore – Cino Macrelli interveniva nella stessa seduta del 4 giugno ‘47 con un discorso di vasto respiro nel quale, prendendo le mosse dal Mazzini e richiamando un immemore gruppo liberale all’eredità minghettiana, offriva all’assemblea una sintesi di alto profilo delle ragioni in favore del regionalismo. "….in favore della Regione – affermava – non militano soltanto quelle ragioni di ordine storico, demografico, sociale, economico di cui hanno parlato molti dei nostri colleghi, ma sono anzitutto quelle politiche sulle quali io richiamo ancora una volta la vigile attenzione dell’Assemblea e che in fondo si possono riassumere in questa affermazione: noi siamo contro lo Stato accentratore; noi siamo per la libertà, per le autonomie locali. Gli enti periferici devono vivere la loro vita, coi loro mezzi, colle loro istituzioni, con le loro leggi, senza l’intervento paternalistico o coatto dello Stato, che, attraverso la burocrazia, ha sempre soffocato le legittime aspirazioni e le libere iniziative dei Comuni e anche delle Provincie; comunque, degli enti locali."

Autonomie come presidio di libertà

Libere iniziative dei comuni e delle provincie dunque - diceva Macrelli – salvo mettere in dubbio subito dopo la utilità e la ragione storica dell’ente provincia, la quale "se diventa veramente un ente autarchico indipendente, autonomo, deve pure avere le sue istituzioni, deve pure avere le sue leggi, le sue norme: orbene tutto questo va a incidere su quella che dovrà essere la funzione e l’attività della Regione."

Chi meglio dei repubblicani in fin dei conti avrebbe potuto vedere nelle autonomie quel presidio delle libertà che avrebbe avvicinato il nostro Paese al modello della democrazia americana, quel modello che nel travaglio della guerra era apparso a tutti i democratici come un traguardo insuperabile?

"Vi sono – diceva Macrelli - delle ragioni morali, e altre molteplici di natura diversa che militano in favore della nostra tesi. Ma ce n’è una, soprattutto, particolarmente politica, che ha il suo valore, che ha la sua importanza, dopo la dolorosa ventennale esperienza che abbiamo fatto[….] per me, le regioni sono come degli scompartimenti stagni, sono delle paratie che servono di fronte ai pericoli delle dittature. Se in un certo momento dovesse balzare alla ribalta della storia qualcuno per imporre ancora una volta la legge della violenza e ricacciare nel buio di un passato di umiliazione la nostra vita, le regioni saprebbero difendere la loro libertà e la libertà della Patria."

Un altro tema caro a Macrelli fu l’equilibrio dei poteri delle due assemblee.

Egli sostenne "uguaglianza dei diritti e dei poteri per l’una e per l’altra assemblea: è questione di giustizia civile, morale, politica" (17 settembre ‘47). E’ da ricordare, fra l’altro, come la formulazione – che risultò poi vincente – di "Senato della Repubblica", fosse frutto di un emendamento dei repubblicani De Vita e Macrelli, contro la semplice dizione "Senato", troppo tradizionalista per i comunisti e "Seconda Camera" o "Camera dei Senatori" che risultava confusa e in qualche misura stabiliva una sorta di subalternità di un’assemblea rispetto all’altra. Nella stessa occasione, Macrelli enunciava i criteri per l’elezione dei senatori: "Non collegio uninominale, ma suffragio universale col sistema della proporzionale, sistema di democrazia e di giustizia, civile e politica".

Egli sosteneva questa soluzione considerando che "i lavoratori sono entrati in pieno nella vita politica, nella vita nazionale, ormai sono diventati gli arbitri, devono essere gli arbitri della vita del nostro Paese".

In questo contesto egli esaltava il ruolo di mediazione che dovevano svolgere i partiti: "E’ bene , allora, che anche i partiti, i quali sono espressione della coscienza popolare, dicano alta la loro parola, soprattutto quando si tratti di nominare i rappresentanti del popolo nelle future Assemblee legislative".

Una magistratura senza pressioni

Quanto alla questione dell’ordine giudiziario, anch’essa al centro dell’attenzione del gruppo repubblicano, va sottolineata l’insistenza sul principio dell’autonomia della magistratura: "Per noi la cosa più importante è questa: che l’Assemblea Costituente fissi delle norme precise, per cui la Magistratura italiana possa, libera da influenze politiche, esercitare la sua grande missione al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica".

Cino Macrelli era nato a Sarsina nel 1887, laureato in giurisprudenza a Bologna e avviato ad una brillante carriera forense si era presto legato con i repubblicani cesenati e forlivesi, Ubaldo Comandini e Giuseppe Gaudenzi, diventando consigliere comunale a Cesena prima e alla provincia a Forlì poi, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. Volontario e rinchiuso nel 1915 in un campo di concentramento perdeva al fronte il fratello Edgardo. Tornato a Cesena si impegnava nella organizzazione del partito repubblicano di cui diventava deputato nel 1921. Macrelli non conobbe le oscillazioni e i disorientamenti di molti suoi compagni di partito di fronte alle violenze fasciste.

Nel suo ruolo di leader prestigioso, riuscì a scongiurare una crisi mortale per il partito quando, nel 1923, le Consociazioni romagnola e marchigiana decisero di scindersi dal Pri e fondare una Federazione Autonoma delle Marche e della Romagna, per tentare un approccio più morbido nei confronti del fascismo. Furono allora Macrelli e Gaudenzi a rappresentare la linea di fermezza, sulla quale furono poi costretti a ritrovarsi anche coloro che avevano cercato un dialogo con i fascisti, quando questi volsero la loro violenza, dopo i socialisti, verso gli stessi repubblicani.

Rieletto nel 1924 era stato tra gli aventiniani, quindi espulso dal Parlamento nel 1926.

Dedicatosi con Aldo Spallicci alla ricostituzione del partito repubblicano nell’immediato dopoguerra venne eletto all’Assemblea costituente in seno alla quale ebbe un ruolo autorevole nella definizione dell’ordinamento costituzionale (bicameralismo, Regioni e autonomie locali) nel riordino del potere giudiziario (autonomia dei giudici e Corte Costituzionale) nelle scelte di politica economico-finanziaria (imposta straordinaria patrimoniale, cooperazione, riforma della mezzadria e dei patti agrari ). Senatore di diritto fino al 1953 fu poi eletto alla Camera dei deputati nella II e III legislatura. Fu a capo del dicastero della marina mercantile nel governo Fanfani del 1962, il primo di centrosinistra, nel quale Ugo La Malfa, come ministro del Bilancio, lanciava la politica di programmazione. Moriva nel 1963 poco dopo essere stato eletto al Senato nel collegio di Ravenna.

Dare testimonianza della verità

Alla fine di questo intervento mi sia consentito di esprimere qualche considerazione politica partendo dal travaglio che la Romagna ha sempre avuto dall’inizio del ‘900 fino ai giorni nostri.

Lo spirito battagliero del popolo romagnolo ha avuto nel PRI una sua esplicazione quasi costante. A volte appare, il PRI romagnolo, come un’anima senza pace alla ricerca di una verità che non trova e cerca di scovarla con un processo iterativo che tuttavia ha portato quasi sempre ad una rifondazione del partito repubblicano in Romagna.

La Romagna ha rappresentato e rappresenta per i repubblicani italiani un pezzo di storia importante e forse la stessa storia del PRI.

A questa storia di contrasti politicamente laceranti appartenevano pure i due deputati all’Assemblea Costituente.

Infatti, Macrelli non esitò a rompere i rapporti politici con Comandini che era stato il leader del primo 900 nella sua Romagna. Possiamo riassumere il pensiero di Macrelli su queste vicende in un discorso che tenne a Cesena nel 1962: "Anche in altri tempi io seppi operare scelte che mi procurarono il dolore di mettermi contro amici che io pure stimavo ed amavo, nella esigenza per me inderogabile, di dare testimonianza della verità, credendo con coraggio e decisione alle tesi, che giudicavo più conformi alla dottrina, alla tradizione del Partito, agli interessi del Paese".

Quella scissione voluta da Ubaldo Comandini e di cui abbiamo parlato prima, riporta all’attualità il travaglio che il Partito Repubblicano Italiano sta vivendo in questi anni.

E all’inizio degli anni ‘60 si consumava un’altra spaccatura: mentre Macrelli seguiva la linea di Ugo La Malfa per la scelta di centro sinistra, Aldo Spallicci si schierava con Randolfo Pacciardi all’atto della fondazione della nuova unione repubblicana.

Pacciardi ritornò al PRI negli anni 80 e partecipò puntualmente alle numerose Direzioni Nazionali, Spallicci purtroppo non ebbe il tempo di ricredersi.