"Il Sole 24 Ore" 1 febbraio 2004/Israeliani e Palestinesi

"Condannati alla convivenza"

Le dinamiche demografiche e le profonde trasformazioni delle strutture economiche costringeranno prima o poi i due popoli in conflitto a trovare un accordo

di Giorgio La Malfa

E' possibile intravedere, in mezzo alla violenza apparentemente inarrestabile del conflitto arabo-israeliano, una prospettiva di pace in Medio Oriente? Un libro recente di Bernard Wasserstein (Israelis and Palestinians, Yale University Press, New Haven and London, 2003, 25 $) argomenta che alcuni fattori di fondo come le tendenze demografiche rispettive di israeliani e palestinesi, l'evoluzione socioeconomica delle due popolazioni, i problemi ambientali e quelli dello sfruttamento delle risorse naturali dell'area spingeranno necessariamente i due popoli verso la convivenza. Wallerstein, autore di una interessantissima storia della questione di Gerusalemme (Divided Jerusalem, Londra, 2001) afferma che questi fattori offrono "una base solida per prevedere che il conflitto possa pervenire a una risoluzione pacifica" (p.3).

Il più importante è la demografia. Il territorio che comprende Israele, la Cisgiordania e la striscia di Gaza ha oggi una popolazione pari a poco meno di 10 milioni di abitanti. Di essi, 5 milioni sono ebrei, 1,3 palestinesi residenti in Israele e il resto palestinesi che appartengono essenzialmente al perimetro del futuro stato palestinese. Ma le tendenze demografiche delle tre popolazioni sono profondamente differenti. Nella popolazione di origine ebraica i tassi di natalità stanno scendendo rapidamente a livelli europei, mentre si sono sostanzialmente esaurite le possibilità di immigrazione di massa dall'esterno. I tassi di natalità degli arabi di Israele sono invece molto elevati, anche se in via di rallentamento; restano invece elevatissimi i tassi di natalità palestinese nei territori occupati. Se Israele – osserva Wasserstein - vorrà mantenere una prevalenza di ebrei sulla popolazione totale, nel medio periodo non ha altra scelta che quella di circoscrivere il proprio territorio a quello del periodo pre-1967.

Questa prima considerazione è rafforzata dalla profonda trasformazione della struttura economica di Israele. Una componente importante del sionismo fu a suo tempo l'idea della valorizzazione agricola del territorio dell'antica Palestina. Gli insediamenti al di fuori dei confini del 1967 trovavano la loro giustificazione originaria in questa idea di un collegamento stretto fra l'agricoltura e le possibilità di sopravvivenza del popolo ebraico. L'odierna economia israeliana non dipende più dall'agricoltura. Questo mutamento riduce significativamente già oggi ed ancor più in prospettiva l'esigenza di disporre di nuovi e crescenti territori.

Accanto a questi due fattori principali Wasserstein pone l'accento sulla complementarietà fra le economie israeliana e palestinese, nei problemi di gestione dell'ambiente, nello sfruttamento delle risorse delle regione come l'acqua e nell'impiego della mano d'opera. Su questo ultimo punto Wasserstein nota che la manodopera palestinese è indispensabile per il funzionamento di molti settori importanti dell'economia israeliana, mentre per i palestinesi una più stretta integrazione con Israele rappresenta, in prospettiva, la sola garanzia di poter raggiungere condizioni più adeguate di vita.

Wasserstein è convinto che, nel tempo, fattori come questi siano destinati a esercitare una influenza moderatrice sulle opinioni pubbliche e sulle classi dirigenti delle due comunità ed a controbilanciare i fattori che spingono all'odio reciproco ed allo scontro. Egli osserva che, in fondo, nel 2000, nei negoziati di Camp David e di Taba, fra Israele e l'Autorità palestinese si era andati molto vicini ad un accordo. Le linee di questo accordo prevedevano essenzialmente il rientro di Israele entro i confini del 1967, seppure con alcuni aggiustamenti territoriali, la rinuncia alla costruzione di nuovi insediamenti e lo smantellamento di una parte di quelli esistenti; il sostanziale abbandono della rivendicazione palestinese al diritto al ritorno in Israele dei profughi del 1948 ed una soluzione equilibrata della questione di Gerusalemme. In quella circostanza l'accordo fallì, ma i termini di una eventuale sistemazione sono essenzialmente quelli allora individuati.

A conferma i queste osservazioni si può notare che qualche settimana fa il premier Sharon ha difeso di fronte al Lykud l'ipotesi di un ritorno di Israele entro i confini del 1967 e lo smantellamento delle colonie che penetrano profondamente nel territorio palestinese. La stessa costruzione del Muro va in questa direzione. Semmai, non è ancora chiaro se in seno alle classi dirigenti palestinesi e, più in generale, nel mondo arabo, vi sia la consapevolezza della necessità di una soluzione del conflitto. La fine del regime di Saddm Hussein in Irak è certamente utile anche da questo punto di vista.

La conclusione finale di Wasserstein è questa: "Se si vorrà che una qualche forma di vita civile possa sopravvivere su quella che è la loro patria comune, queste forze ineluttabili dovranno alla fine portare Israeliani e Palestinesi a trovare un accordo" (pag. 176). E' una conclusione che si può sottoscrivere non solo come auspicio, ma forse anche come previsione. Essa naturalmente dipende da quel "se" che la accompagna. Possiamo sperare che prevalga il desiderio di far sopravvivere una vita civile in quel territorio, ma non ne possiamo essere certi di fronte alle prove che la storia ha dato della follia degli uomini. E tuttavia le osservazioni di Wasserstein contengono un contributo rilevante: esse individuano alcune aree nelle quali i due popoli potrebbero sperimentare una collaborazione positiva. Se l'Europa volesse fare qualcosa di utile, potrebbe concentrare i propri sforzi in questa direzione. Ed a sua volta l'inizio di una collaborazione potrebbe, con il tempo, sortire risultati tali da cambiare le prospettive del Medio Oriente.

Bernard Wasserstein, "Israelis and Palestinians", Yale University Press, New Haven and London 2003, pagg. 226, Us$ 25,00