Dopo la bocciatura del testo Pecorella/Passo indietro nella riforma del processo

Poche garanzie non assicurano sentenze "giuste"

di Guido Camera*

Bisognerà leggere le motivazioni della decisione della Corte Costituzionale di bocciare parzialmente la cosiddetta "legge Pecorella", proprio là dove aveva maggiormente contribuito a rafforzare il sistema accusatorio, posto alla base di tutti gli ordinamenti giuridici di stampo democratico - liberale e su cui si fonda il processo penale italiano.

La legge 46/06, "Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento", ha codificato, infatti, nel novellato art. 533 del codice di procedura penale il principio fondamentale degli ordinamenti giuridici liberali, già valorizzato dalla Corte di Cassazione e dalla migliore dottrina, ovvero che il Giudice deve pronunciare una sentenza di condanna solamente nel caso in cui la colpevolezza dell'imputato sia provata al di là di ogni ragionevole dubbio.

Partendo da questo presupposto, che è il reale cuore pulsante dell'intera riforma, il Legislatore aveva sancito l'impossibilità per il Pubblico Ministero e la parte civile di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, al fine di impedire un'inutile duplicazione di un giudizio fondato su fatti già oggetto di accertamento nel corso del processo di primo grado, sede naturale in cui la prova deve formarsi nel contraddittorio orale e paritario tra accusa e difesa, conclusosi con una sentenza di proscioglimento. Di conseguenza, l'appello da parte del Pubblico Ministero era consentito solo nel caso di emergenza di nuove prove decisive dopo la sentenza di primo grado, mentre era sempre consentito il ricorso in Cassazione all'organo dell'accusa, e quindi anche in assenza di nuove prove successive alla conclusione del processo di primo grado, per consentire il controllo sulla conforme applicazione della legge ai fatti accertati nel corso del processo. La stretta connessione tra la regola di valutazione cui deve attenersi il Giudice, ovvero che la colpevolezza dell'imputato deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio e che, in caso contrario, non può che essere pronunciata una sentenza di proscioglimento garantita dal rischio di un ribaltamento ingiustificato in quanto derivante da un giudizio d'appello disancorato dal requisito costituzionale dell'oralità e fondato su un'identica valutazione di merito alla cui base vi sono però solo carte scritte, è di tutta evidenza ed è un principio fondamentale cui deve ispirarsi il giusto processo, che si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo, imparziale e ancorato alla presunzione di innocenza, quale quello previsto dalla nostra Costituzione.

Bisognerà, a maggior ragione, leggere le motivazioni in quanto ad oggi (per chi scrive) l'ufficio stampa della Corte Costituzionale, con una nota stringata, ha comunicato solamente che i Giudici delle leggi hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale della parte della novella che impediva al Pubblico Ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento nonché della norma transitoria che prevedeva l'inammissibilità dell'appello contro una sentenza di proscioglimento da parte del Pubblico Ministero, anche se precedente all'entrata in vigore della riforma, mentre hanno dichiarato inammissibile la medesima questione di illegittimità costituzionale, però riferita all'appello della parte civile contro le sentenze di proscioglimento.

Non è la prima volta che la Corte costituzionale, piegandosi alle doglianze di alcune parti politiche, tra le quali il sindacato dei magistrati (ANM), dichiara costituzionalmente illegittime delle norme del codice di procedura penale in realtà espressione di laicità e democrazia giuridica perché finalizzate allo sdoganamento del nostro processo penale da retaggi di stampo inquisitorio; come non ricordare, infatti, la posizione più volte espressa dalla Consulta sull'art. 513 del codice di procedura penale, in particolare con riferimento ai reiterati tentativi di "azzoppare" il contraddittorio processuale consentendo che dichiarazioni eteroaccusatorie rese dai coimputati (i "pentiti") nel corso delle indagini preliminari e quindi nella fase procedimentale più povera di garanzie per l'imputato, potessero essere utilizzate dal giudice per la propria decisione?

Allora un ruolo centrale lo ebbe il Parlamento che sopperì alle decisioni troppo "politiche" della Consulta ripristinando il proprio primato di Legislatore e decidendo la felice riforma dell'articolo 111 della Costituzione, nonché la promulgazione della Legge 63/01, cosiddetta "di attuazione dell'art. 111 della Costituzione", che resistette poi spavaldamente al successivo vaglio davanti alla Corte Costituzionale. Ed ora, come allora, è auspicabile che il Parlamento recuperi un principio di civiltà giuridica senza piegarsi ai diktat provenienti da alcune parti politiche, legate ad una desueta, in quanto inquisitoria ed autoritaria, concezione della giustizia penale, al fine di garantire al cittadino, coinvolto in quel dramma umano che è il processo penale, di avere un processo giusto senza essere alla mercé di chi lo accusa nuovamente dopo non essere riuscito ad ottenere un giudizio di colpevolezza nel corso del giudizio di primo grado. Del resto, ma questo è un dato di comune esperienza in quanto da tempo riconosciuto in tutti gli ordinamenti giuridici di stampo democratico-liberale, non è certo diminuendo le garanzie che il processo penale può concludersi con una sentenza "giusta", in quanto frutto di un corretto accertamento dei fatti e della legittima applicazione delle norme.

*eletto nel Consiglio di Zona 1 a Milano