La stanca geremiade dell'inaugurazione dell'anno giudiziario Il rito si ripete tutti gli anni, uguale e monotono. Ma le vere ferite della giustizia non vi trovano mai spazio di Fiorenzo Grollino Il rito si ripete tutti gli anni, mi riferisco all'inaugurazione dell'anno giudiziario, che puntualmente avviene in questi tempi, riservando ogni anno una sorta di geremiade, che un signore ormai avanti negli anni, il procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione, legge con voce stanca e monotona. Con il rito si ripete anche la geremiade, perché si tratta sempre dell'esposizione di dati statistici riferiti ai processi penali ed a quelli civili, alla criminalità comune ed a quella organizzata, di considerazioni e riflessioni non solo, ma anche di proposte che dovrebbero contribuire a ridimensionare questi dati, a dir poco raccapriccianti soprattutto per numero e tipologia di reati, ma che restano purtroppo nel libro dei sogni, perché la speranza che la situazione migliori resta sempre delusa. A questo si aggiunga che la situazione della Amministrazione della giustizia, peggiora di anno in anno, nonostante leggi e leggine, decreti e decretini, che quasi sempre non producono l'effetto desiderato, perché sono mirati a singoli aspetti di questa sgangherata amministrazione, che dovrebbe essere riformata nella sua globalità. Ecco perché la relazione del Procuratore generale ogni anno sembra il bollettino di una sconfitta, e purtroppo la grande sconfitta è proprio la dea giustizia. Così questa pomposa cerimonia si traduce, tutto sommato, in una passerella dei vertici dello Stato, di capipartito, di magistrati in ermellino, e di personaggi presenti a vario titolo. Quest'anno, poi, il procuratore generale, officiante di questa cerimonia con il primo presidente della Cassazione, ha comunicato al paese di aver scoperto, dopo aver tanto meditato, perché la giustizia in Italia non funziona. Egli, con molta sicumera, ha dichiarato che: "La giustizia non funziona e l'amministrazione e inefficiente, perché ci sono troppe garanzie". Questa è la sintesi del Favara-pensiero. Di quel Francesco Favara, procuratore generale della Suprema Corte regolatrice del diritto. Tanto infelice quanto inopportuna. E' la prima volta che accade, perché nessuno, prima di Favara, ha mai pensato che i problemi della giustizia si possano risolvere, abolendo e/o restringendo le garanzie che spettano ad ogni cittadino, soprattutto quando per i comportamenti di certa magistratura non ci sono mai sufficienti garanzie. Il dott. Francesco Favara probabilmente non sa che la giustizia anglosassone è rapida e veloce, pur godendo il cittadino di tutte le garanzie possibili ed immaginabili. E' probabile che il procuratore generale nella sua riflessione si sia ispirato alla massima coniata oltre due millenni or sono dai giuristi romani nostri antenati: "Supremum ius, summa iniura". Per non parlare poi della tanto conclamata indipendenza della magistratura, a cui non poteva non richiamarsi il procuratore generale nella sua "orazion piccola". Con ciò dando una mano al popolo ulivista, che si è guadagnato sul campo i galloni di paladino della indipendenza della magistratura. Di quale magistratura? Forse di quella che quando giudica non riesce a mettere la sordina alle passioni di parte? Certo che l'indipendenza della magistratura deve sempre essere assicurata, ma è la stessa magistratura di certe correnti a non essere indipendente. Eppure la missione della magistratura deve essere improntata ad indipendenza ed imparzialità, ma le devianze da questi principi sono tante e di non poca importanza. E' proprio a queste devianze che bisogna porvi rimedio, per sconfiggere il fariseismo imperante e riportare così la giustizia alla sua vera funzione di imparzialità ed indipendenza. Ma questo tema purtroppo è rimasto assente dalla grande kermesse di lunedì scorso. "L'opinione" 16 gennaio 2003 |