"Il Sole 24 Ore" 17 gennaio/Il grande banchiere arrivò anche a scontrarsi con Mattioli sulla definizione delle strategie dell'istituto. L'obiettivo che seguì fu di sottrarre Via Filodrammatici ai troppi vincoli imposti dalle altre banche azioniste Cuccia e l'autonomia di Mediobanca di Giorgio La Malfa All'inizio dell'attività di Mediobanca, le tre Banche di Interesse Nazionale rappresentavano il principale canale operativo dell'Istituto. La raccolta dei depositi avveniva attraverso libretti di risparmio collocati attraverso i loro sportelli, mentre erano generalmente le BIN ad indirizzare a Mediobanca i potenziali clienti. Quindi un rapporto stretto e continuo. Enrico Cuccia era stato assunto nel 1938 dalla Comit dopo avere lavorato, fra il 1934 e il 1935, nell'IRI di Beneduce e Menichella. Nel precedente articolo ho ricordato che Beneduce aveva scritto, che le società di credito mobiliare dovevano essere "indipendenti da interessi particolari di gruppo e gestite con rigidità dei criteri." Si direbbe questo il modello al quale Cuccia si sia ispirato per il lavoro di Mediobanca. Nel corso del tempo e pur in un rapporto di affetto e di stima molto profondi, questo ferma volontà di autonomia provocò delle differenze di opinione con Raffaele Mattioli che aveva concepito Mediobanca e ne era il vero azionista di riferimento. L'idea di Cuccia di una rigida separazione fra Mediobanca e le BIN non coincideva del tutto con quella di Mattioli. Nel Consiglio di Amministrazione della Comit del 23 gennaio del 1946, questi si era chiesto quale fosse l'interesse della Banca Commerciale Italiana nella nascita di Mediobanca ed aveva risposto: "Non certamente quello di assumere una partecipazione, non di controllo, in un ente finanziario L'interesse nostro è legato a ben altra considerazione. Infatti, il nuovo ente dovrebbe agevolare alla propria clientela – che è anche la nostra clientela – il riassetto della propria struttura produttiva: ciò significa, in pratica, la possibilità per il nostro Istituto di mantenere ai propri impieghi il carattere di crediti di esercizio, senza avventurarsi in mascheramenti estremamente pericolosi di operazioni alle quali solo formalmente potrebbe darsi il carattere di credito commerciale." Dunque una divisione del lavoro nella quale il ruolo dominante avrebbe dovuto essere svolto dalla Comit. Su questo si misurò la resistenza di Cuccia. Nell'Assemblea di Mediobanca del 29 ottobre 1952, dopo avere osservato che, in qualche caso, nuovi investimenti potevano essere indispensabili per correggere errori precedenti, egli affermò che "il settore creditizio a medio termine non deve respingere tale funzione, che spesso può essere di grande beneficio per l'economia del Paese, consentendo di rendere remunerativi capitali altrimenti compromessi; ma d'altra parte non può nemmeno esservi dubbio che questo compito richiede una particolare cautela ed un'analisi dei problemi dell'azienda molto più accurata ed approfondita di quanto in genere non si ritenga necessario." L'accenno finale conteneva un evidente rilievo critico contro i crediti concessi dalle banche commerciali senza sufficiente attenzione alle condizioni generali delle aziende e del mercato. Quasi, o forse in risposta a questi rilievi, in una relazione del 1953 al Consiglio di Amministrazione della Comit, Mattioli riconosceva che "in molti casi il ricorso alle banche, anziché servire a finanziare i normali cicli produttivi e commerciali, può tendere a diventar cronico e inflessibile, e andare, insieme ai mezzi propri dell'azienda, a sostenere posizioni speculative, a permettere vendite a così lungo respiro che fan dell'azienda stessa una banca dei suoi clienti, e finanziare indigesti magazzini o addirittura impianti industriali." Ma aggiungeva che quelli che per una banca commerciale potevano apparire crediti poco liquidi, sarebbero stati eccellenti investimenti per una banca di credito mobiliare. Questa discussione si svolse anche nel Consiglio di Amministrazione di Mediobanca. Molto tempo fa, Adolfo Tino mi fece conoscere una nota dettata a verbale da Mattioli nel 1957 che spiega molto bene la questione del "conflitto di interessi", come si direbbe oggi, fra Mediobanca ed i suoi azionisti. Il passo rilevante è il seguente: "Ha detto il nostro Amministratore Delegato che Mediobanca incontra difficoltà nello sviluppo dei suoi affari perché i buoni clienti trovano caro il denaro a medio termine che essa può offrir loro, in confronto al denaro a breve che possono ottenere dalle banche di credito ordinario; e, senza accusare le banche commerciali di ‘invadere' deliberatamente il campo del credito a medio termine, ha cercato di spiegare come ciò sia accaduto, formulando il dubbio, o il sospetto, che alcuni crediti concessi dalle banche di credito ordinario come crediti ‘commerciali', col passare del tempo siano ‘inaciditi', siano diventati ‘finanziari' e tendono a trasformarsi in immobilizzi, che Mediobanca non ha nessun interesse a togliere dal groppone delle banche commerciali." Ed aggiungeva: "riconosco che una modesta, molto modesta aliquota dei nostri crediti ha una velocità di rotazione così lenta che mal possono configurarsi come crediti ordinari. Preferiremmo non averli: non perché siano ‘inaciditi' non perché minaccino di diventare ‘sofferenze' ma proprio perché vorremmo fosse portata fino in fondo, e stabilmente mantenuta, quella divisione del lavoro tra banche di credito ordinario e Mediobanca. Ma si tratta in genere di operazioni che Mediobanca non ha desiderato di fare e che noi abbiamo preso ‘a balia' perché l'auspicata ‘divisione del lavoro' ha trovato qualche intoppo." La questione riecheggia nelle polemiche di questi mesi: chi decide della divisione del lavoro fra Mediobanca e le banche azioniste? In un libro su Mattioli apparso nel 1983, Giorgio Rodano pubblicò alcuni passi di una lettera di Mattioli a Cuccia del novembre 1961, la cui minuta si trova nell'Archivio della Comit ma che non risulta ufficialmente inviata. Mattioli si riferisce ad un "vivace colloquio" intercorso fra i due nel quale – scrive Mattioli – "ti dissi che a me dovevi far sapere le cose, indipendentemente dalla difficoltà di una periodica convocazione del Comitato." E prosegue: "Posta in termini sereni e non brutali, [la questione] è: nell'interesse di chi è amministrata Mediobanca? La partecipazione Mediobanca nelle BIN non è un impiego di portafoglio. Mediobanca è uno strumento delle BIN…". Ed ancora, riferendosi evidentemente ad un'obiezione fattagli da Cuccia: "io sono felicissimo che mi si insegni qual è il mio interesse. Ma come faccio ad apprenderlo se ciò che dovrebbe insegnarmelo resta avvolto nelle tenebre del più ermetico segreto?" Rodano osservò che evidentemente Mattioli non era soddisfatto degli indirizzi dell'Istituto in quanto "ben più che operare secondo il compito costitutivo (supplire a una lacuna della ‘legge bancaria' erogando il credito a medio), il banchiere siciliano aveva impegnato Mediobanca in una politica di alta finanza e di ‘grandi affari' ". Questa interpretazione ha alimentato negli anni il mito della segretezza di Cuccia, del suo ruolo di difensore del capitalismo delle grandi famiglie e così via. In realtà, la nota del 1957 fa comprendere che il punto di fondo era un altro: era la sfera di autonomia di Mediobanca nelle decisioni di credito. Fra l'altro, come so per conoscenza diretta, "il vivace colloquio" non riguardava in alcun modo l'alta finanza o i grandi affari. Mattioli aveva perorato con calore, la causa di una azienda (editoriale) piuttosto malconcia che la Comit sosteneva. Cuccia, esaminate le condizioni dell'azienda (il cui dissesto, rinviato per molti anni, si è manifestato poi in tempi più vicini a noi), aveva respinto la perorazione di Mattioli, forse con una delle frasi con cui chiudeva questo tipo di discorsi: "meglio verdi di rabbia oggi per aver perso un affare, che rossi di vergogna domani per averlo fatto." Il contrasto non riguardava quindi gli indirizzi generali dell'Istituto, ma l'autonomia di Mediobanca nei confronti delle banche azioniste. All'indomani della costituzione di Mediobanca, Cuccia, con il consenso e l'attivo sostegno di Mattioli, cominciò la ricerca di partners internazionali. L'iniziativa si concretizzò nel 1956 quando le Bin scesero dal 100 al 55% ed entrarono tre banche estere: Lazard, Lehman e Berliner Handels Gesellschaft. In quell'occasione nell'azionariato entrò anche Pirelli. Mediobanca fu quotata in borsa e si formò un primo patto di sindacato, successivamente allargato e riformulato. A parte gli effetti benefici di questa apertura internazionale, l'obiettivo di Cuccia fu la riduzione del peso diretto delle BIN. Ed ancora molti anni dopo, nel 1987 – 1988, questa fu la preoccupazione che spinse Cuccia, ingaggiando con Romano Prodi, allora presidente dell'IRI, una difficile battaglia che varrebbe la pena un giorno di ricostruire nel dettaglio, a realizzare la privatizzazione di Mediobanca. Dunque, Cuccia perseguì tenacemente l'obiettivo di sottrarre l'Istituto ad un vincolo di complementarietà con le banche azioniste, in modo da preservarne la libertà di giudizio sugli affari. Questo problema ha costituito sempre l'aspetto più delicato dell'azione di Mediobanca e forse lo costituisce tutt'oggi. C'è solo da aggiungere che, dalla sua costituzione ad oggi, Mediobanca ha concesso crediti per oltre 150.000 miliardi di lire; le perdite sono ammontate a 5,1 miliardi di lire, cioè allo 0,003% dei crediti concessi. Quanto ai rapporti fra Cuccia e Mattioli, essi rimasero sempre di una qualità straordinaria. Adolfo Tino dettò le parole con le quali la Relazione per il 1973 di Mediobanca salutava, a pochi mesi dalla sua scomparsa, Raffaele Mattioli ricordando che "Mediobanca dopo la Sua Comit, fu la creatura che egli predilesse." Quattro erano i nomi del mondo finanziario che ricorrevano nelle conversazioni di Cuccia: quelli di Beneduce, di Menichella, di Mattioli e di André Meyer. (secondo di tre articoli) |