"Il Sole 24 Ore" 23 gennaio 2003/Dopo i provvedimenti che hanno regolamentato il settore, il destino della banca milanese si trova a un bivio: l'ingresso in un gruppo, sull'esempio estero, oppure separazione più netta dagli istituti che ne sono azionisti

"Mediobanca, è ora di investire nel futuro"

di Giorgio La Malfa

Con il testo Unico delle Leggi bancarie del 1993 è venuta meno la rigida separazione fra credito a breve termine e credito a medio termine sulla quale poggiava la regolamentazione dell'attività bancaria italiana dal 1936 -1937. Il ritorno alla banca universale è stato accompagnato da un processo di concentrazione che ha interessato le banche maggiori, le quali sono intervenute sia nel credito mobiliare, sia nell'area tipica della banca d'affari creando proprie filiali. Anche a seguito di questi sviluppi si è avuta una riduzione del peso dell'intermediazione creditizia nei conti economici delle banche e un corrispettivo aumento del peso delle attività di gestione del risparmio e di consulenza finanziaria verso le imprese. Nelle grandi banche italiane i proventi di queste attività sono oggi pari a poco meno del 50% dei proventi complessivi (indagine R&S – Il Sole 24 Ore).

Anche in altri Paesi, come negli Stati Uniti, dove vigevano rigide regole di divisione del lavoro fra le banche commerciali e quelle di investimento, e precisi limiti territoriali all'attività delle banche (legge Glass-Steagall del 1933) si è proceduto, a partire dalla seconda parte degli anni ‘80, ad una progressiva attenuazione dei vincoli, sino alla loro totale eliminazione nel 1999. Se questa grande ondata liberalizzatrice avrà effetti positivi o darà luogo a gravi inconvenienti – alcuni dei quali si sono già visti negli Stati Uniti negli ultimi mesi – lo si potrà giudicare fra qualche tempo. Quello che, invece, è certo è che questi sviluppi, tuttora in pieno corso, stanno avendo ed avranno, effetti rilevanti per quanto riguarda le vicende bancarie italiane delle quali mi sto occupando. Essi ampliano la sovrapposizione fra il lavoro tipico di Mediobanca e quello delle grandi banche e comportano la conseguenza di alimentare, con modalità varie ed imprevedibili, le differenze di punti di vista o i veri e propri contrasti con le banche azioniste che si possono manifestare e si manifestano nella vita quotidiana dell'Istituto.

In passato, i punti di attrito riguardavano, per così dire, "le zone grigie" dell'attività creditizia, cioè quell'area dei crediti formalmente a breve, ma sostanzialmente a lunga scadenza concessi dalle banche commerciali che esse avrebbero preferito fossero assunti da Mediobanca e che Mediobanca rifiutava di accollarsi, se non dopo un esame per il quale essa rivendicava una totale autonomia di giudizio. In fondo, il contrasto fra Enrico Cuccia e Raffaele Mattioli, nelle circostanze che ho avuto modo di ricordare nel precedente articolo riguardava, come aveva scritto quest'ultimo, "[le] operazioni che Mediobanca non ha desiderato fare e che noi abbiamo preso ‘a balia' perché la divisione del lavoro ha trovato qualche intoppo". Oggi, nelle nuove condizioni di operatività delle banche, i contrasti possono nascere ed anzi tendono a nascere dal fatto che vi sono molti dossier che vengono sottoposti all'attenzione sia di Mediobanca sia delle sue banche azioniste e sui quali il prevalere dell'una o delle altre, oltre a comportare rilevanti effetti diretti sui conti economici, contribuisce a generare ulteriore lavoro.

L'accusa che potenzialmente accompagna quotidianamente le decisioni di Mediobanca è, ancora, quella di sottrarsi a una opportuna divisione del lavoro. Con una differenza essenziale: mentre in passato accedere alla divisione del lavoro voluta dalle banche presenti nel suo azionariato avrebbe comportato l'assunzione da parte dell'Istituto di rischi non voluti, oggi quella stessa divisione del lavoro comporterebbe il ritirarsi dell'Istituto da molte operazioni tipiche del suo lavoro, o peggio, il non proseguire affari redditizi ideati dalla banca che i soci, dopo averne avuto dettagliata conoscenza nelle riunioni di consiglio, potrebbero decidere di assumere in proprio, facendo valere un principio di ubi maior minor cessat. Questa, almeno giudicando dall'esterno, sembra essere l'essenza della questione Ferrari che ha marcato in questi mesi il deterioramento dei rapporti fra l'Unicredito e Mediobanca.

E' chiaro che questa situazione va affrontata e che va trovata una soluzione. Essenzialmente, le strade possibili per l'assetto di Mediobanca sono due. Prima di indicarle, è necessario segnalare un rischio che può rivelarsi molto concreto. Il rischio è che, proseguendo l'attuale grado di scontro, l'Istituto perda il suo vigore e che vengano meno quelle caratteristiche che ne hanno caratterizzato l'attività ed il ruolo negli ultimi 50 anni e gli hanno consentito di rendere dei servizi importanti al nostro Paese.

Dopo una fase iniziale nella quale Mediobanca operò esclusivamente nel campo del finanziamento a medio termine, l'Istituto sviluppò tre ambiti di attività fra loro diversi ma complementari con il primo. Esso si specializzò nel campo dell'organizzazione dei consorzi di collocamento obbligazionari e azionari, assumendone la guida e la responsabilità; in secondo luogo, esso iniziò ad acquisire significativi pacchetti azionari di grandi aziende ed infine sviluppò una speciale capacità di predisporre ed attuare piani di risanamento economico e finanziario dei gruppi in difficoltà.

Vale la pena osservare che nessuna delle grandi investment bank europee – Lazard, Warburg, Rohtschild, Morgan Grenfell – ha mai svolto, almeno fino agli anni a noi più vicini, dei compiti di questa ampiezza. Generalmente le società finanziarie internazionali, non disponendo né di rilevanti mezzi propri, né di una provvista di risparmio, nell'offrire i loro servizi di consulenza finanziaria non mettevano risorse proprie nel finanziamento degli investimenti ma assicuravano, con il loro prestigio, il credito necessario per le operazioni, credito che proveniva dalle banche commerciali. Raramente esse operavano come capofila nei consorzi di collocamento; ancor più raramente esse si impegnavano in programmi di ristrutturazioni e di vero e proprio salvataggio industriale.

La grande intuizione di Enrico Cuccia fu quella di concedere alle imprese italiane impegnate, prima nella ricostruzione, poi nel grande boom degli anni ‘50 e '60, non solo gli eventuali finanziamenti a medio termine dei quali esse avevano necessità, ma anche i più vasti servizi finanziari di cui esse potevano avere bisogno, unendo a tali servizi le risorse proprie ed il risparmio raccolto sul mercato. Cuccia usava dire che i clienti che si recavano in banca avevano bisogno per metà di consigli e per l'altra metà di soldi. Era anche questa disponibilità a far fronte ai rischi con i propri fondi che consentì a Mediobanca di guidare con successo i processi di risanamento o i piani di salvataggio industriale che ne hanno caratterizzato l'azione dagli anni ‘60 in avanti.

Ed infine, gli investimenti azionari. Fu lo stesso Mattioli a volere includere nello Statuto fra i possibili impieghi di Mediobanca, l'acquisto di azioni. Inizialmente questi investimenti servirono a consolidare, in una fase di alta inflazione, il valore reale dei mezzi propri della Banca. In una fase successiva, dopo gli anni ‘60, quando emersero con chiarezza i punti di debolezza del sistema industriale italiano, essi servirono a rafforzare, in un "capitalismo senza capitali" - secondo la felice espressione di Napoleone Colajanni - i gruppi imprenditoriali italiani, ad arginarne la crisi ed in definitiva a consentire di mantenere in Italia il controllo di importanti settori dell'attività industriale.

Questa complessità e ricchezza del modello Mediobanca serve gli interessi del Paese e oggi più che mai, non deve andare dispersa. Per questo non si può dar corso all'idea, che ogni tanto viene riproposta, di separare le attività di credito da quelle di gestione dei pacchetti azionari: verrebbe meno l'essenza stessa di quella costruzione alla quale Cuccia lavorò con grande lungimiranza guardando soprattutto allo sviluppo economico italiano ed al problema del lavoro che per lui, che aveva visto di persona negli anni ‘30 in Inghilterra, come talvolta diceva, le code dei disoccupati per un piatto di minestra, rappresentava il fine ultimo dell'azione economica.

Come ho detto, le possibili soluzioni stabili per il futuro di Mediobanca sono due: o l'ingresso di Mediobanca, così come essa è, in un gruppo bancario, del quale sia chiamata a curare le attività che oggi sviluppa per proprio conto – e questa sarebbe la strada che hanno preso praticamente tutte le banche di investimento europee che oggi operano all'interno di grandi gruppi bancari; oppure una separazione più netta fra Mediobanca e le banche azioniste, con la trasformazione del loro investimento in Mediobanca in un investimento di portafoglio che, nel tempo, esse potranno ridurre o smobilizzare del tutto. A mio giudizio, questa seconda soluzione è da preferirsi perché stimolerebbe di più la concorrenza e preserverebbe un'esperienza unica anche sul piano internazionale che ha servito bene l'Italia e che soprattutto potrà servirla bene nel difficile futuro che ci aspetta.

(Terzo e ultimo di una serie di articoli)