Sole 24 Ore 7 giugno 2003

Bce, quel colpevole ritardo che ha bloccato la ripresa

di Giorgio La Malfa

Con buona pace dei commenti positivi che hanno accolto la decisione della Banca Centrale Europea di ridurre i tassi di interesse, il mio giudizio sulla BCE non cambia: la sua politica in questi anni ha concorso alle gravi difficoltà delle economie europee. Essa ha tenuto alti per troppo tempo i tassi di interesse e, quando li ha abbassati, lo ha fatto con ritardo. In politica economica, oltre al contenuto delle decisioni, conta il momento nel quale vengono prese. Una decisione giusta ma tardiva equivale a somministrare a un malato una medicina dopo aver lasciato aggravare senza rimedio le sue condizioni. Né vale per la Bce l’osservazione di Machiavelli per il quale vi sarebbero malattie difficili da diagnosticare all'inizio, quando sarebbe facile curarle e facili a diagnosticare poi, quando diviene sostanzialmente impossibile curarle. Nel caso dell’Uem non vi era difficoltà alcuna di diagnosi: era evidente fin dal 1999 che le economie europee avevano bisogno di essere sostenute da una politica monetaria espansiva in quanto gli sforzi dei maggiori Paesi per riportare i bilanci pubblici entro i parametri stabiliti Maastricht tendevano a creare condizioni di particolare debolezza della domanda. E poiché il Patto di stabilità obbligava quegli stessi Paesi a proseguire politiche fiscali relativamente restrittive, era indispensabile una politica monetaria espansiva.

Sfortunatamente questa valutazione realistica si scontrava con la concezione ortodossa posta a base del Trattato di Maastricht sia per la politica monetaria, alla quale veniva assegnato il compito di tenere a freno l’inflazione, sia per le politiche fiscali per le quali si prescriveva comunque il pareggio di bilancio, indipendentemente dalla natura delle spese pubbliche e dalle condizioni del ciclo economico. L’ortodossia affermava che eventuali problemi di disoccupazione non possono derivare da problemi di domanda ma solo dal cattivo funzionamento dei mercati competitivi e in particolare dal mercato del lavoro.

Oggi la BCE si accorge che esistono rischi di deflazione ma nello stesso tempo i governi e la Commissione Ue continuano a ripetere che il Patto di stabilità non si tocca, con il rischio di abbassare i tassi di interesse nel momento in cui non vi è una reattività del sistema direttamente produttivo e di posticipare ancora una volta il ricorso agli investimenti pubblici che, nelle condizioni attuali, sono i soli che potrebbero rimettere in movimento il ciclo economico.

Le vicende di questi anni confermano che manca in Europa un punto di riferimento politico che possa orientare e condizionare da un lato le scelte alla BCE e dall’altro quelle dei governi una sede nella quale possano essere poste con l’autorevolezza necessaria le esigenze di sviluppo delle economie europee. Quella che in più occasioni ho avuto modo di chiamare "la solitudine della banca centrale" produce una assoluta incapacità di prendere decisioni politiche anticipatrici o quanto meno tempestive. Il fatto che su questi temi la Convenzione europea non sia stata e non appaia in grado di far muovere un passo avanti alle istituzioni europee conferma una situazione grave e preoccupante e cioè che un’area economica delle dimensioni dell’Uem è abbandonata a se stessa con un unico riferimento a un organismo burocratico che opera in un vuoto politico. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi ma non è che l’inizio di una crisi che peserà molto seriamente sulle prospettive politiche dell’Europa.