Concorrenza e innovazione/Senza scordare la grave saturazione delle superfici territoriali

Porre le politiche ambientali nel processo di crescita

di Giovanni Pizzo

Il presidente del Partito repubblicano, Giorgio La Malfa, in poche settimane ha suonato la sveglia ad un ministero dai più ritenuto un ripiego, dimostrando che la forza delle idee supera la mancanza di "portafogli". Giorgio La Malfa, che aveva previsto con largo anticipo le difficoltà che avrebbe avuto l'Europa con una moneta unica ma senza una politica economica unitaria, oggi coglie, con la consueta lucidità politica, che la crisi dell'Europa ha radici nell'ansia della popolazione per il rischio di un arretramento delle condizioni economiche e nella delusione per l'incapacità dimostrata dai governi (sempre quelli in carica indipendentemente dal loro orientamento di destra o di sinistra) di formulare ed attuare una strategia convincente per invertire queste tendenze. Egli, quindi, rilancia la "strategia di Lisbona" (consiglio europeo di Lisbona del 23 – 24 marzo 2000): "Fare dell'Unione europea la più competitiva e dinamica economia basata sulla conoscenza, capace di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una maggiore coesione sociale". Dopo cinque anni il bilancio di quella iniziativa è del tutto fallimentare. Se l'economia non cresce a causa dei troppi vincoli al mercato del lavoro, alla concorrenza, all'innovazione, l'attuazione della strategia di Lisbona deve passare per la introduzione a livello europeo, di "dosi massicce" di concorrenza nel mercato del lavoro, in quello dei capitali e nei servizi, puntando sull'innovazione e la ricerca.

Ma esiste un altro vincolo che gli economisti ortodossi tendono a sottovalutare: la saturazione dei sistemi economici il cui supporto fisico è ormai entrato in crisi e non riesce ad alimentare il processo di sviluppo così come oggi è strutturato. L'Italia, la Germania e l'Olanda (che costituiscono una grande fetta dell'economia europea) presentano valori fra i più alti al mondo del rapporto pil su superficie di territorio ma, considerando la disomogenea distribuzione territoriale della ricchezza, le zone più sviluppate di Germania e Italia raggiungono densità di pil ancora superiori.

Le risorse ambientali che forniscono i servizi di supporto fisico allo sviluppo economico sono diventate, in questi paesi, molto scarse e, quindi, molto costose, sia in termini monetari (costi di disinquinamento, restrizioni alle attività, costi delle infrastrutture, ecc.) che in termini di esternalità (costi non misurabili con la moneta che si scaricano a lungo termine sulla collettività, come le malattie, il degrado del paesaggio, la perdita di bio diversità, ecc.). Questo vincolo non potrà né essere eluso né essere rimosso. In materia ambientale l'Unione europea punta ad assumere un ruolo guida a livello globale e lo stesso documento di Lisbona si propone di "adeguare la politica macro economica alle esigenze dello sviluppo sostenibile". Il "sesto programma di azione comunitaria in materia di ambiente" istituito con decisione 1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002 indica le priorità per la dimensione ambientale della strategia dello sviluppo sostenibile e mira a "sganciare" le pressioni ambientali dalla crescita economica.

La sola legislazione ambientale non è sufficiente a realizzare lo sganciamento auspicato (e direi indispensabile in alcuni contesti saturi). Allora è necessario: ottenere una maggiore interazione con il mercato; restringere le "esternalità"; internalizzare gli impatti ambientali positivi e negativi attraverso l'utilizzo di strumenti di mercato ed economici quali l'eliminazione dei "sussidi perversi" (si pensi a quelli per l'autotrasporto su gomma!), i diritti di emissione negoziabili, le tasse "pigouviane" (ambientali); indurre cambiamenti dei modelli di produzione e di consumo pubblico e privato; attuare il principio "chi inquina paga".

La struttura dell'economia italiana richiede l'immediata attivazione delle strategie di sostenibilità del processo di crescita che si vorrebbe innescare, in modo che le stesse politiche ambientali diventino un pezzo della riforma del sistema industriale italiano e della sfida della competitività. Basta dare uno sguardo all'andamento degli ultimi anni degli indicatori classici della sostenibilità (intensità di consumo lordo di energia per unità di pil, andamento delle emissioni di gas serra, volumi di trasporti per unità di pil, ripartizione modale dei trasporti, esposizione della popolazione urbana all'inquinamento atmosferico, produzione pro capite di rifiuti urbani, prelievo di risorse idriche per unità di pil, quota di produzione di energia da fonti rinnovabili, ecc.) per rendersi conto che la proiezione di questi indici riferita agli auspicati tassi di crescita del pil porterebbe alla congestione e al collasso del sistema.

Dovendo contestualmente affrontare il problema della copertura finanziaria per l'eliminazione dell'irap sul lavoro si potrebbe partire con la tassazione ambientale. Introdotte con appositi accorgimenti, a seguito di una attenta progettazione, con una applicazione graduale ed una corretta informazione, le tasse ambientali hanno stimolato l'innovazione e promosso il cambiamento strutturale dei comportamenti (molti esempi provengono dai paesi Scandinavi). E allora perché non provare subito con la introduzione di una aliquota di imposta sul consumo ambientale (Ica): qualche punto percentuale commisurato alla quantità di impatto ambientale negativo incorporato da ciascuna categoria di prodotti. Potrà sembrare una proposta bizzarra, ma certamente più moderna di quella del Ministro Siniscalco (che ha proposto l'aumento delle aliquote iva) e poi, a confronto con ciò che propongono alcuni ministri (uscire dall'euro, introdurre la castrazione chimica per i reati sessuali) ci sentiamo di dire che si tratta comunque di una proposta seria.