Il Pri è con chi si batte per modernizzare l'Italia di Gianni Ravaglia Il contenuto dell'appello dei 100 economisti di chiara fama apparso su "Il Sole 24 Ore" il 16 giugno, se consideriamo la deriva demagogica e populista che ha assunto in Italia il dibattito sull'Europa e la moneta unica, grazie ad alcuni partiti perennemente in cerca di notorietà, ha una sua innegabile validità. Ricordare agli smemorati che l'Italia era sull'orlo della bancarotta e che se oggi non avessimo la moneta unica ci ritroveremmo nell'identica situazione, in quanto negli ultimi dieci anni poco è stato fatto per ridare stabilità e crescita autonoma alla nostra economia, gli stessi auspici che non venga "ridotto il rigore fiscale e monetario" e che si debba innescare "un maggiore grado di concorrenza, migliorare la qualità dell'istruzione, investire in ricerca e infrastrutture", è il minimo che professionisti della ricerca economica potessero fare una volta che avessero deciso di lanciare un "appello" alla nazione. Ciò che mi chiedo è se questo basti. L'Italia, come gran parte delle nazioni europee, ha di fronte l'esigenza di scelte decisive, le stesse che ha posto Blair sul bilancio dell'Europa: si vuole continuare a difendere un passato costoso e inefficiente o si vuole investire su di un futuro di crescita e di occupazione? Se si vuole investire sul futuro, non essendo pensabile un ulteriore aumento del debito che già supera il 100 per cento del Pil, si hanno davanti due scelte: o si aumentano le tasse o si avvia un trasferimento di risorse dai settori protetti a quelli per lo sviluppo. Se si considera che l'Italia ha uno dei più alti cunei fiscali del mondo, il solo parlare di aumento delle tasse non può che indurre le imprese a cercare altri lidi ove investire. Lo stesso governatore Fazio ha stimato in un milione i posti di lavoro creati, negli ultimi anni, dalle imprese italiane all'estero. Ciò nonostante, al pari dell'abbozzo di programma che Prodi ha enunciato a Bari, nell'"appello" non si avverte alcuna scelta in tal senso. Ma il nodo sta proprio qui. L'intreccio corporativo-statalista che blocca la crescita della nostra economia è tale per cui anche la miglior cultura economica è pronta a ripetere i soliti auspici sulla concorrenza, l'istruzione, la ricerca, ma non ad indicare con decisione i settori che vanno messi in dieta se si vogliono trovare le risorse per un nuovo sviluppo. L'unica proposta seria, uscita dall'ufficio studi della Banca d'Italia, della quale ho dato conto in un mio precedente articolo, ci dice che è possibile innescare una crescita del 3% all'anno anche per l'Italia. Tra le altre condizioni perché questo avvenga vi è la riduzione della spesa pubblica corrente del 6 per cento in cinque anni, utilizzando il grasso che si è accumulato nella pubblica amministrazione centrale, ma soprattutto periferica. E' la stessa Corte dei Conti a dirci che il ventre molle della crisi, il punto nodale, sta in capo alla pubblica amministrazione, al costo della politica, centrale e periferica, che si autoalimenta, con enti inutili, regolamenti, normative, apparati costosi e inefficienti. Nel quadriennio 2001-2004 il rapporto indebitamento –prodotto interno lordo è stato in media del 4,3 per cento. Se poi andiamo a vedere la distribuzione delle spese, scopriamo che la finanza allegra è in capo alle amministrazioni periferiche: regioni, province, comuni, aree metropolitane. La spesa centrale, in quattro anni, è rimasta ferma all'11,8 per cento del pil, quella periferica è passata dal 12,9 al 14,7 per cento. Se si esclude la previdenza, il 55 per cento della spesa complessiva è oggi in capo alle amministrazioni locali e se si darà attuazione integrale al titolo V della Costituzione, tale percentuale sforerà il 63 per cento. Nel solo 2004, scrive la Corte dei Conti, la spesa dello Stato è aumentata dello 0,6 per cento mentre le spese correnti degli enti decentrati sono aumentate del 7 per cento e quelle in conto capitale del 10. Il dramma di tale situazione deriva dal fatto che, una volta soppresso il comma 1 dell'art. 125 della Costituzione con il nuovo Titolo V, le amministrazioni periferiche non sono più sottoposte ad alcun controllo. Non le può controllare lo stato centrale, non le controllano i cittadini che pagano il maggior numero di imposte a Roma senza rendersi conto che oltre il 50 per cento della spesa viene dalle amministrazioni locali. La mia impressione è che se veramente si vuole cominciare a fare un "operazione verità", da qui si debba cominciare: se non si vuole tagliare la spesa sociale, bisogna dimagrire il costo della struttura statuale. Ma se nemmeno la cultura economica vuole avviare una operazione verità, ancor meno riuscirà a farlo la politica. Dunque penso abbia ragione Mario Monti che, rispondendo all'appello dei 100 economisti, è costretto a constatare, amaramente, che né questo centrodestra, né questo centrosinistra abbiano, al loro interno, l'omogeneità necessaria per applicare concrete politiche di sviluppo. "Le raccomandazioni di politica economica degli economisti -scrive Monti - in un sistema politico bipolare applicato all'attuale realtà italiana sono destinate a restare lettera morta". E v'è da ritenere - mi permetto di aggiungere- che quelle raccomandazioni siano del tutto insufficienti alla bisogna! Il problema vero allora è di capire se debba nascere un terzo polo che si faccia carico dei problemi reali della nazione, per intercettare quel 17 per cento di cittadini che i sondaggi dicono essere disponibili per una terza posizione, oppure se nelle due maggiori coalizioni oltre a parlare di partiti unici o federati, potranno emergere volontà per porre in campo un progetto politico che le impegni a quelle riforme strutturali capaci di convincere le imprese nazionali e internazionali che si può tornare ad investire in Italia. Finanche chi come me crede che vada costruita anche in Italia una federazione di partiti democratico-liberali, di fronte ad una delle più gravi crisi - economica e, insieme, politica - che l'Italia abbia conosciuto, sa che, nell'interesse della nazione, andrebbero comunque sostenute quelle forze che si impegnassero credibilmente su concrete iniziative di rilancio. I dati, per ora, ci dicono che il centrodestra non è riuscito ad impedire la più grave recessione di produzione e di consumi del dopoguerra e nel centrosinistra esistono componenti decisive che, come scrive Monti: "perseguono con lucida razionalità una visione diversa da quella di una moderna economia di mercato". E non è un caso che gli organismi periferici - maggiori centri di spesa - siano in grande maggioranza governati dal centrosinistra. Ma se Giorgio La Malfa con l'incarico ottenuto per il ministero che dirige, quello di elaborare un programma per la realizzazione della strategia di Lisbona, volesse diventare il Blair italiano, colui cioè che avvia l'operazione verità e predispone quel progetto politico di riforme strutturali di cui l'Italia abbisogna (e su di esso troverà l'impegno della coalizione di cui il Pri è partecipe), allora avrà il sostegno del paese e, per quanto può contare, il mio personale. |