L'Edera e le battaglie future/Dare una risposta a molti temi in un mondo globalizzato

I repubblicani propongano una rivoluzione culturale

Riceviamo e pubblichiamo.

di Gianni Ravaglia*

L'articolo di La Malfa, pubblicato sul "Riformista", riprende, rilanciandola, la tesi che assieme ad altri amici da tempo vado sostenendo. Non essendo, però, interessato alle primogeniture, mi pare importante approfondire il ragionamento di La Malfa, alla luce sia dell'articolo del segretario Nucara, che della proposta avanzata da Tartaglia. Vagliando i programmi che i due poli hanno presentato per le recenti elezioni politiche, mi è parso evidente come, sia l'uno che l'altro, non intendano reagire con proposte convincenti ai due fenomeni che hanno sconvolto gli equilibri mondiali: l'affermazione di un fondamentalismo islamico che si pone come soggetto politico alternativo ai valori e alla cultura dell'occidente; la nuova divisione internazionale del lavoro e dello sviluppo generati dal processo di globalizzazione. Due fenomeni che già hanno cambiato, ma più ancora cambieranno, in futuro, il quadro di riferimento delle tradizionali politiche, dettando l'agenda delle nuove priorità. Purtroppo anche il Pri, nonostante il risveglio dell'ultimo anno, con la conferenza programmatica, non mi pare abbia approfondito sul piano culturale, prima ancora che politico, le risposte alle nuove sfide internazionali. La mia impressione è comunque che, sia che noi vogliamo creare un tavolo di confronto tra tutti i repubblicani - come propone Tartaglia - sia che noi vogliamo avviare la costruzione di un nuovo soggetto politico che abbia i connotati del liberalismo europeo - come propone La Malfa - l'agenda dei lavori dovrebbe, innanzitutto, dare risposte alle domande imposte dagli eventi citati. L'organizzazione viene dopo. Essa nasce dall'identità che si riconosce ad un progetto politico e dalla passione che questo sa risvegliare.

Innanzitutto la sfida dell'Islam pone alcuni nodi decisivi, da ultimo ripresi da Ronchey sul "Corriere" dell'8 giungo scorso. Vado per sintesi. Il primo: dobbiamo difendere o no l'identità occidentale, i suoi valori, a partire dai principi contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Il secondo: è giusto continuare ad operare solo all'interno delle logiche Onu che, come sappiamo, ha una maggioranza di nazioni non democratiche, oppure si deve dare vita anche ad una nuova organizzazione internazionale dei paesi democratici come a suo tempo proposero i democratici americani. Il terzo: a prescindere dal fatto che si creda o meno in Dio, riteniamo che l'annientamento che l'Islam si propone delle altre religioni, sia un fatto che interessa pure noi e il nostri sistema di valori, oppure no? Il quarto: visto che è storicamente assodato che l'immigrazione islamica non ha alcuna intenzione di integrarsi e che anzi tende ad imporre, una volta consolidato il proprio peso, proprie regole e propri valori al complesso della società ospitante, è giusto o no selezionare l'immigrazione sulla base della volontà degli immigrati di integrarsi nella nostra società, pur garantendo ad ognuno l'esercizio della proprio credo religioso. Il quinto: se siamo d'accordo che solo la democrazia può garantire pace e prosperità, è giusto o no operare per la diffusione della democrazia nel mondo, anche intervenendo militarmente laddove esistono condizioni di assoluta negazione dei diritti dei popoli e reali pericoli per le nostra democrazia. Il sesto: stante il fatto che le risorse tradizionali per produrre energia si trovano soprattutto nei territori di regimi islamici, che usano le risorse naturali a fini politici e religiosi, dobbiamo operare per ridurre, fino ad annullare, la nostra dipendenza energetica dei regimi totalitari, oppure no. Per essere più chiari: scegliamo la schiavitù da Gheddafi o il rischio calcolato del nucleare? La risposta alle suddette domande porta con sé, mi pare, una prima ridefinizione di una nostra identità alla luce degli eventi apparsi palesi dopo l'11 settembre del 2001.

Passiamo alla globalizzazione. Si può essere favorevoli o contrari, ma essa c'è e nemmeno stringenti logiche autarchiche potrebbero fermarla. D'altra parte grazie ad essa milioni di esseri umani stanno uscendo dalla fame e dall'indigenza. Con essa bisogna dunque fare i conti. E i conti sono presto fatti: se chi moriva di fame oggi si accontenta di vivere con 400 euro al mese, senza avere alcuna copertura sociale e riesce, a questi costi, a realizzare prodotti che alle aziende italiane costano 3000 euro al mese (di cui mediamente 1500 euro vanno in tasca al lavoratore e 1500 vanno in tasse, contributi, per mantenere le istituzioni statuali e le coperture sociali e previdenziali), allora è chiaro che la divisione internazionale del lavoro viene sconvolta.

Prodotti meno costosi

Se le aziende italiane sono in grado di produrre manufatti che, sui mercati internazionali, sono talmente appetibili da valere 3000 euro al mese, continueranno a vendere, se invece i manufatti sono più o meno uguali a quelli prodotti a 400 euro al mese, il mercato sarà invaso dai prodotti meno costosi e le aziende con costi fuori mercato chiuderanno i battenti. Il problema si pone allora su due versanti. Da un lato va certamente incentivata, con appositi dazi temporanei, la crescita di benefici sociali nei Paesi in via di sviluppo, ma dall'altro va aumentata l'innovazione e ridotto il costo delle nostre produzioni. Occorre puntare alla crescita dell'economia e per puntare alla crescita è verosimile che si debba intervenire in tre settori. Il primo, sono i costi amministrativi dello Stato centrale e periferico. Occorre mettersi in testa che le nostre sono istituzioni da società opulenta. Cosa ce ne facciamo di 20 Regioni, di 109 Province, di oltre ottomila Comuni. Servono a mantenere un costoso ceto politico, non a fornire migliori servizi al cittadino.

L'interesse del cittadino

Se cominciassimo a guardare veramente all'interesse del cittadino, piuttosto che a quello della politica allora, ci accorgeremmo che il cittadino italiano potrebbe tranquillamente vivere con uno Stato più snello, meno costoso e meno invasivo. La qual cosa comporterebbe una riduzione delle spese e quindi delle imposte che gravano sui costi dei prodotti. Il secondo gravame è l'apparato corporativo che avviluppa gran parte della società italiana: dalle libere professioni, ai servizi al cittadino e alle imprese, dalla magistratura, all'università. Siamo, da questo punto di vista, in pieno medioevo. L'obiettivo di liberalizzare e rendere competitivo il sistema Italia è decisivo per ridurre costi e rendere più competitive le prestazioni. Il terzo, è il rapporto giovani –anziani. Che un giovane debba pagare elevati contributi previdenziali per mantenere chi è già in pensione, quando si sa che quegli stessi contributi garantiscono al giovane che entra oggi nel sistema produttivo una pensione inferiore di oltre il 50 per cento, è un assurdo logico. Una vera e propria ingiustizia.

Una risposta al problema

A mio parere, una risposta al problema sta nel tra-slare all'imposta sui consumi un importo non secondario dei contributi pagati per il sistema pensionistico. Solo così, pagando una imposta maggiorata sui consumi, anche gli anziani continuerebbero a finanziare la propria pensione, riducendo gli oneri diretti sul lavoro e fornendo più spazi per il personale risparmio previdenziale.

Idee e proposte, certo non esaustive. Iniziamo a ragionarci sopra. La mia ferma convinzione è che in Italia e in Europa ci sia bisogno di una vera e propria rivoluzione culturale. Non so se noi repubblicani abbiamo voglia di prenderne la guida. Certo è che qualcuno, prima o poi, lo farà. Pena il declino irreversibile.

*cons. nazionale del Pri, membro della Dn