Il muro e la sentenza dell'Aja/Le ragioni dei giudici e gli interessi degli Stati

Se la Corte internazionale suscita perplessità

di Tommaso Edoardo Frosini

La decisione della Corte internazionale di giustizia dell'Aja con la quale viene dichiarato illegale il muro in Cisgiordania, perché determinerebbe la violazione di una serie di diritti dei palestinesi, la si potrebbe collocare nell'ambito del percorso avviato dalle Corti giurisdizionali a tutela dei diritti umani e delle libertà personali. Mi riferisco, in particolare, alle recenti sentenze della Corte Suprema americana sui detenuti di Guantanamo, che puntano al rispetto dello habeas corpus; alla sentenza della Corte Suprema israeliana, che si è pronunciata sull'esigenza di rivedere il tracciato del muro intorno alla Cisgiordania al fine di "minimizzare le sofferenze dei palestinesi"; e poi ai due grandi processi internazionali avviati contro Milosevic e Saddam Hussein, accusati di reati contro l'umanità. Si tratta di questioni differenti fra loro, sia politicamente che giuridicamente; ma qui interessa sottolineare l'attivismo delle Corti giurisdizionali e il ruolo globalizzante che esercitano nelle democrazie contemporanee.

Certo, non si può non salutare con favore e convinzione il fatto che il potere giudiziario assuma a sé il compito di custodire i principi dello Stato di diritto attraverso la tutela dei diritti fondamentali degli individui. Compito peraltro che senz'altro gli appartiene, ma che non sempre ha saputo (e voluto) esercitare. Nei casi prima ricordati, invece, non solo ha affermato con autorevolezza la garanzia dei diritti e della legalità, ma si è eretto a interprete di un corretto uso della democrazia imponendo limiti all'indirizzo politico di difesa dei governi. Esercizio assai difficile questo, anche perché giocato sul fragile crinale fra libertà e sicurezza, ovvero tra una legalità costituzionale da custodire e una emergenza legislativa nella lotta contro il terrorismo da non sconfessare.

A voler ragionare sull'attivismo giurisdizionale più recente, occorre però fare dei distinguo. E allora metto da parte i processi contro i dittatori Milosevic e Saddam Hussein, anche perché troppo peculiari rispetto alle altre tre vicende giurisdizionali, le quali invece presentano molte analogie ma una grande differenza. In particolare, si possono senz'altro apprezzare le scelte compiute dai giudici costituzionali americani e israeliani: questi erano chiamati a dare forza alla democrazia del loro Paese mettendo sopra tutto i diritti fondamentali degli individui. Da un lato, quelli dei detenuti della base americana di Guantanamo, che devono essere sottoposti come tutti al due process of law e che pertanto debbono valere per loro come per tutti i diritti costituzionali; dall'altro lato, i diritti di 35.000 palestinesi sradicati dalla loro terra per consentire la costruzione di un muro a tutela della sicurezza dello Stato d'Israele, e quindi il richiamo della Corte israeliana affinché il governo riveda il tracciato del muro e tenga così conto di un giusto equilibrio tra sicurezza e considerazioni umanitarie. Che una Corte Suprema dica al proprio governo cosa è costituzionalmente giusto e come ci deve democraticamente comportare potrà non piacere ma così è, ed è bene che continui ad essere così. Che una Corte internazionale dica ad un Paese cosa deve fare o non fare per la propria politica di sicurezza, sia pure invocando i diritti dell'uomo, forse sarebbe bene che non fosse così e comunque suscita delle riserve. E' pur vero che la decisione della Corte internazionale di giustizia è a titolo consultivo e quindi non vincolante, ma si tratta comunque di un intervento che sindaca la sovranità dello Stato, e non solo. Così come è scritto nella sentenza (la Corte si dice "non convinta che la direzione che Israele ha scelto per il muro necessariamente porti alla realizzazione dei suoi obiettivi nel campo della sicurezza"), ebbene, si tratta di un'affermazione che invade oltre modo le scelte di uno Stato perché penetra nella politica di uno Stato. Se un Paese ritiene di doversi difendere dal terrorismo, al punto di dover escogitare una soluzione estrema quale quella dell'innalzamento di un muro per controllare il traffico degli scambi con i Paesi confinanti, allora può essere consentito che una Corte internazionale faccia l'arbitro del mondo e alzi il cartellino giallo per ammonire quel Paese? Paradossalmente ma non troppo, è come se negli anni Settanta un organo giurisdizionale internazionale avesse bacchettato l'Italia per il varo di una legislazione speciale nella lotta contro il terrorismo dell'epoca, accusandola così di mettere a repentaglio i diritti dei cittadini.

Certo, non si contesta il corretto richiamo ai diritti dell'uomo, che nel caso israeliano sono quelli di parte della popolazione cisgiordana scacciata per fare spazio al muro; quello che lascia perplessi, piuttosto, è che sia una Corte internazionale a valutare il grado di sicurezza oltre il quale uno Stato deve arrestarsi. Come se non esistesse un diritto dei cittadini alla sicurezza che oggi è anche un diritto di libertà. Come se non valesse il principio di sovranità dello Stato in ordine alla propria politica di difesa da attuare per reprimere il cancro del terrorismo, che nelle zone del Medio Oriente è da troppo tempo in metastasi. Come se non bastasse il giusto, doveroso e corretto richiamo giurisdizionale fatto dalla Corte Suprema d'Israele, unico organo deputato a bilanciare i diritti nel proprio territorio, sulla base di considerazioni condizionate dalla concreta realtà del Paese e dalla tensione dei valori che governano in un dato momento storico la popolazione di uno Stato.