Forlì, 24 maggio 2003/Convention Programmatica Pri :24/30/31 maggio "Scuola e Formazione: elementi strategici di uno sviluppo" La relazione di Mariaconcetta Schtinelli Premetto che, nel trattare l’argomento assegnatomi, poiché ci viene offerta materia di riflessione dalla riforma scolastica nazionale da poco approvata e da quella regionale che prestissimo passerà in Consiglio, non ho fatto una scelta di campo politica pregiudiziale, perché questo probabilmente mi avrebbe indotto a sottolineare o a tralasciare, in funzione di tale scelta, alcuni aspetti delle due leggi. Ho, invece, metodologicamente scelto di analizzarle "laicamente", proprio per trarre ,da entrambe, gli aspetti positivi e quelli di maggiore criticità. Il disegno di legge di riforma dell’Istruzione, approvato il 12 marzo 2003, giunge dopo 80 anni dalla legge voluta dal filosofo G. Gentile, che rivoluzionò la scuola, ma che ormai era del tutto inadeguata. Si trattava di una riforma classista e statalista, nel senso che annullava ogni tipo di autonomia, e che esercitava uno stretto controllo ministeriale sugli insegnanti; una riforma in cui l’esame di stato garantiva la serietà del lavoro scolastico e l’uguaglianza delle condizioni, contro i rischi di una frammentazione localistica delle valutazioni. Oggi, con la riforma Moratti, che cosa resta della riforma Gentile? Non certo quel progetto alto che, qualunque giudizio se ne dia, stava alla base della nuova scuola. Fatte le dovute distinzioni, però, alcuni elementi non proprio positivi di somiglianza ci sono: si vedano i funzionari locali che- come aveva fatto il regime- vengono sostituiti in nome di affinità politiche; si consideri la gerarchia tra le materie, solo che al posto della filosofia il primato spetta all’inglese; e al posto dell’umanesimo c’è la "grandezza" dell’informatica. Per capire come si sia giunti a questo cambio di prospettiva, non dobbiamo dimenticare che oggi sono le ragioni dell’economia e la nostra appartenenza all’UE a determinare le linee della riforma, insieme al mutato quadro normativo dal 1997 ad oggi. Già l’Europa dei 15, ma ancor più l’allargamento dell’Europa a 25 Paesi, determina la necessità di confrontare culture e politiche per trovare una linea unitaria, pur senza mortificare le identità nazionali, sulla base di obiettivi generali quali: -il miglioramento dell’istruzione e dell’educazione; -l’aumento dell’efficacia della didattica; -l’incremento delle opportunità di scambio culturale, professionale e sociale all’interno dei Paesi membri.
Ecco perché le articolazioni degli ordinamenti scolastici sono, a grandi linee, già simili in tutti i Paesi europei. La società della comunicazione impone, purtroppo, contenuti e valori comuni, ma consente anche una diffusione larghissima e rapidissima degli stessi contenuti. Se pensiamo che i Paesi nuovi membri UE adegueranno rapidamente i loro programmi di insegnamento, e che il costo del lavoro in molti di essi è notevolmente inferiore a quello dell’Italia, è facile immaginare quali effetti ciò potrebbe determinare. Per questo, l’aspetto del valore della formazione e dell’istruzione è veramente centrale e, piuttosto che concentrarsi su questioni formali e molto politicizzate, sarebbe necessario fare una riflessione accurata sui programmi e sulla capacità dei sistemi di preparare in modo adeguato i giovani. L’indagine PISA (Programme for International Student Assessment), svolta di recente dall’OCSE su un campione di studenti di tutti i Paesi industrializzati, ha visto l’Italia piazzarsi dietro Paesi molto più svantaggiati economicamente e socialmente. E’ evidente, quindi, che in un sistema competitivo quale è quello globale, è indispensabile per noi introdurre innovazioni, mantenendo, però, l’impianto del liceo classico, che ha una capacità formativa generale di riconosciuta grandezza. Dicevo prima del quadro normativo mutato: la riforma del titolo V della Costituzione, approvata nella precedente legislatura, introduce importanti cambiamenti verso un marcato decentramento; ma tali modifiche erano già contenute "in fieri" nelle precedenti norme, e ciò che oggi può apparire come una svolta preoccupante non è altro che la conclusione di un processo già avviato con le leggi sul dimensionamento degli istituti; sul regolamento dell’autonomia; sulla Dirigenza; su compiti e funzioni di regioni, province, comuni; sul riordino del CEDE e della BDP; sugli organi collegiali territoriali. Che cosa, dunque, è cambiato? Sul piano concettuale, le Regioni e gli Enti locali non costituiscono più semplici ripartizioni amministrative del territorio, ma costituiscono essi stessi la Repubblica. Il nuovo art. 117 prevede le rispettive competenze legislative. Sul piano delle prerogative, lo Stato detta le norme generali sull’istruzione. Alle Regioni spetta la competenza esclusiva sull’istruzione e formazione professionale (adesso si chiama così, con termine doppio) Quel che le regioni non possono fare è imporre lo studio di alcune materie piuttosto che di altre; però possono, in virtù della normativa, determinare la qualità e la quantità dell’offerta formativa e possono influenzare le scelte didattiche usando la leva della distribuzione delle risorse o altri sistemi. E’ prevedibile che il passaggio dell’istruzione professionale alle Regioni non sarà né rapido né univoco: innanzitutto perché non si sa ancora bene che fine faranno gli Istituti Tecnici Professionali; poi perché molte Regioni, tra cui la nostra, ma anche la Lombardia e il Piemonte, non sono impazienti di accollarsi il problema della gestione diretta delle scuole. Gli attuali Istituti professionali potrebbero diventare scuole di istruzione professionale istituite dalle Regioni, realizzando così il secondo canale formativo di cui parla la legge Moratti, andando a colmare una delle grandi lacune del sistema formativo italiano. E’ fuorviante continuare a parlare, come fa la legge Bastico, di formazione professionale o, come sollecita Confindustria, di istruzione tecnica, magari da nobilitare facendola transitare tra gli indirizzi del liceo tecnologico (Confindustria privilegia questa scelta perché sa che l’Italia non è tutta uguale). Fuorviante, perché la legge costituzionale 3/2003 identifica due sistemi educativi: uno di istruzione, come dicevo prima, a legislazione concorrente tra Stato e regioni; e uno di istruzione e formazione professionale, a legislazione esclusiva regionale. Quando l’assessore Bastico dichiara che l’Emilia-Romagna non è interessata alla gestione dell’istruzione professionale, perché si approfondirebbe il divario tra scuole di serie A e scuole di serie B; e perché gestire un pezzetto dell’istruzione creerebbe un luogo dell’emarginazione, è evidente che cerca di coprire con ragioni nobili le difficoltà che la Regione si troverebbe ad affrontare nel gestire un settore costoso e di cui non ha esperienza. Pur comprendendo queste difficoltà, io credo che la Regione dovrà affrontare le proprie responsabilità e dovrà anche uscire dall’equivoco ideologico di parlare di pari dignità tra la formazione accademica e quella operativa, definendo però, contemporaneamente, quest’ultima come socialmente selettiva e predestinata alla marginalità. E allora la legge regionale, anziché perdersi in resistenze e contromanovre ( non si sa bene quanto giuridicamente corrette), dovrà cercare di realizzare davvero quella pari dignità. La legge Bastico auspica un sistema integrato tra istruzione e istruzione/formazione professionale e, quindi, corsi di formazione professionale governati dalle scuole. Ma così si otterrebbe il risultato di cancellare gli Istituti Professionali di stato a vantaggio, da una parte, dei licei e, dall’altra, della formazione professionale interamente affidata alla regione e gestita da Enti accreditati. E’ facile prevedere che, in questa prospettiva, molti studenti sceglierebbero il percorso liceale, ritenendo quello professionale meno qualificato, nel timore che un titolo di studio calibrato sulle esigenze territoriali regionali non sarebbe spendibile in ambito nazionale. La formazione professionale Il discorso sulla formazione è molto impegnativo e va rivalutato, innanzitutto perché il sistema che dovrà uscire dalla riforma Moratti dovrà affrontare il confronto con Paesi che hanno una tradizione consolidata in questo campo. Ma anche perché l’afflusso di manodopera extracomunitaria è crescente e necessario in molti settori tradizionali e non. Si pensi che il settore dell’ITC ( Information, Technology and Communication) in Italia dichiara decine di migliaia di posti che non riesce a coprire (già arrivano specialisti perfino dell’India per far fronte alle necessità di queste aziende in continuo sviluppo). In secondo luogo, perché occorre evitare quelle soluzioni di basso profilo, con l’insegnamento di materie anacronistiche e inadeguate, e quel fenomeno di emarginazione sociale che ha caratterizzato questo settore negli anni passati. Infine, perché c’è in campo una pluralità di soggetti, a partire dalle Regioni, spesso impreparati a realizzare un risultato qualitativamente elevato, quando, invece, è indispensabile garantire valore al nostro sistema di istruzione e di formazione, tanto più ora che il quadro europeo si è allargato.Ecco perché non mi sembra abbastanza qualificato l’intervento previsto dalla legge regionale, che continua a riproporre un sistema che non si è rivelato abbastanza efficace. Una considerazione per tutte: perché la Regione, per riconoscere il ruolo formativo delle imprese adotta criteri giustamente riferiti all’eccellenza dei "risultati ottenuti nella gestione aziendale, alla propensione al miglioramento continuo e alla valorizzazione delle risorse umane"; mentre per l’accreditamento degli Enti di formazione professionale si accontenta del requisito dell’attività prevalente? Da una parte, cioè, tiene conto della qualità e della capacità di stare sul mercato; dall’altra, trattandosi di un sistema a finanziamento pubblico, privilegia la quantità dell’offerta formativa, che non sempre si incrocia con l’effettiva domanda o coi bisogni del sistema produttivo. La riforma nazionale tenta di superare la visione della formazione destinata ai poveri o agli espulsi dalla scuola, proponendo un rafforzamento, al suo interno, della quota di formazione generale, per farne una possibile via all’istruzione superiore ( o nel canale dell’alta formazione tecnica e professionale o all’università), ma senza dover passare per i licei. Nella provincia di Trento, dove da tempo è possibile assolvere l’obbligo nella formazione regionale, e dove è anche possibile passare dalla qualifica al IV anno degli istituti professionali (e, in via sperimentale, anche degli istituti Tecnici, e poi all’università), si sono avuti i primi laureati fra i ragazzi che dopo la 3° media avevano scelto la formazione professionale, smentendo così la tesi della canalizzazione precoce verso un destino marginale. Questo argomento polemico della canalizzazione precoce con la scelta della scuola a 13 anni e mezzo, che perpetuerebbe la discriminazione e l’immobilismo sociale, lo si può confutare sostenendo che il vero problema della giustizia educativa non è quello della scelta precoce, ma quello di poter scegliere davvero tra due offerte formative equivalenti e quello di poter contare su un efficace sistema di passerelle da un canale all’altro, cioè dalla formazione all’istruzione e viceversa. Chi vorrebbe, come l’assessore Bastico, rimandare a 16 anni la scelta, proponendo un biennio integrato tra istruzione e formazione professionale, non tiene conto di come per gli alunni demotivati (che ci saranno comunque) si tratterebbe di un parcheggio vissuto con insofferenza. Con una maturità maggiore, si dice, i ragazzi potrebbero completare benissimo in due anni un programma accelerato liceale o professionale. Non mi pare, a questo punto, sufficientemente garantito, rovesciando il ragionamento, chi voglia dedicarsi agli studi liceali in modo approfondito. Inoltre, non si può ignorare il fatto che in Paesi europei dove è in atto una profonda trasformazione dei modelli scolastici, come in Francia, in Gran Bretagna e in Spagna, viene messa in discussione la convinzione che fino a 16 anni gli studenti debbano frequentare esclusivamente la scuola. In Spagna, nel dicembre scorso, si è abbassata l’età della scelta a 14 anni. In Francia, il Collège unique, con percorso scolastico uguale per tutti dai 14 ai 16 anni, che doveva assicurare la diffusione dell’istruzione, ogni anno registra tassi di abbandono scolastico che toccano il 30% degli allievi. Lo stesso avviene in Gran Bretagna. Chissà se un biennio integrato, con percorsi individualizzati, come prevede la legge regionale, avrebbe risolto il problema. In ogni caso, qualche riflessione bisognerà farla anche in Italia. Quello che voglio dire, infine, è che stiamo creando una società sempre più disgregata, che non possiamo analizzare coi vecchi schemi ideologici; tantomeno possiamo pensare di creare una scuola impostata su tali schemi. Se ci si sforza, allora, di ragionare guardando onestamente alla realtà dei fatti, che cosa fa oggi la scuola, se non certificare l’immobilismo sociale, dato che 500mila ragazzi tra i 15 e i 18 anni abbandonano la scuola (per loro non c’è né liceo né formazione professionale)? Per di più, l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 15 anni, così come è stato realizzato, ha condotto su un binario morto più di 30mila ragazzi ogni anno. Allora non si può fare come l’assessore regionale, seguito da gran parte della sinistra, che, vantando una percentuale di dispersione scolastica "solo" del 10% contro il 30 % della media nazionale, sostiene che la nostra Regione ha raggiunto punte di eccellenza nella politica scolastica. Io credo che non coi dati e con le percentuali si valuti la qualità di un sistema scolastico, ma guardando a come i ragazzi sono arrivati al successo formativo, a quanto veritieri siano i risultati positivi, a quali competenze essi siano giunti. Bisogna parlare con gli insegnanti di tante scuole superiori, soprattutto professionali, per venire a sapere quale degrado,non solo culturale, sia spesso presente a scuola. E quanto sia sempre più difficile insegnare, affrontando una marea di problemi sempre nuovi. E allora si capisce meno l’opposizione ideologica venuta da sinistra a un’offerta formativa diversificata, che cerca di dare maggiore dignità e validità a quel segmento scolastico, rimasto spesso il ghetto della dispersione scolastica, la scelta di scarto dei ragazzi che non erano nelle condizioni di affrontare gli studi tradizionali. Piuttosto, le critiche andrebbero rivolte alla mancanza di risorse adeguate alla realizzazione di un impianto così impegnativo (si pensi anche al sistema delle passerelle da un canale all’altro che, per essere efficace, richiede organizzazione, preparazione specifica degli insegnanti, corsi di adeguamento formativo, i cosiddetti LARSA (Laboratori per il Recupero e lo Sviluppo dell’Apprendimento) che dovranno sorgere in ogni città e saranno gratuiti). Continuando nell’analisi della riforma, vorrei soffermarmi su un altro aspetto: quello del decentramento. L’analisi condotta nell’ambito del programma europeo SOCRATES sugli obiettivi perseguiti dai Paesi europei negli ultimi 30 anni mostra, pur nella diversità dei percorsi, una tendenza volta a rafforzare il ruolo delle istituzioni locali per vari motivi. Il primo è dettato dalla volontà di migliorare l’efficacia dell’attività scolastica, e a tal fine si sono affidati maggiori poteri decisionali alle istituzioni locali, più vicine ai bisogni dei cittadini. Altro motivo è l’esigenza di razionalizzare la finanza pubblica attraverso la possibilità di migliorare la previsione dei costi per lo Stato e di coinvolgere gli enti in una gestione efficiente, pena il rischio di dover fronteggiare il deficit di bilancio. Infine, c’è anche la spinta ad una maggiore partecipazione ai processi decisionali di tutte le componenti attive nella scuola. L’Italia ha seguito lo stesso percorso. Ciò non toglie che i timori legati al decentramento siano tanti: ad esempio, quello della regionalizzazione dell’insegnamento; o quello di non riuscire a garantire agli studenti di tutte le regioni, così diverse nelle condizioni di partenza, le stesse possibilità. Tra i dubbi sollevati c’è quello di una diseguale distribuzione dell’offerta scolastica; infatti, alla maggiore autonomia degli Enti locali possono corrispondere differenze anche vistose. Per esempio, un Comune può stanziare cospicue risorse a favore di determinate categorie di studenti (immigrati, portatori di handicap) rispetto ad un altro che ne stanzia meno, così da generare evidenti disparità di trattamento. La stessa autonomia gestionale delle scuole, voluta per indurre concorrenza tra di esse e, quindi, migliorarne potenzialmente la qualità, può produrre complicazioni sul principio di eguaglianza ancora tutte da valutare. Ecco, allora, la necessità del ruolo dello Stato come regolatore ed equilibratore di tutto il sistema, oltre che garante della sua unitarietà e della sua qualità ( E NON SOLO COME GARANTE DEI LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI, come previsto dalla Costituzione). L’autonomia scolastica può essere una carta vincente, se giocata bene: certo non si pensa ad un sistema che determini un’anarchia di risultati, quanto piuttosto alle risorse umane e culturali che possono liberarsi, se sbloccate dai vincoli burocratici. L’autonomia non va vista come una semplice formula organizzativa, un passaggio di consegne dallo Stato agli Enti locali per il governo e la gestione della scuola, che non è, ricordiamolo bene, un apparato periferico dello stato, né un ufficio degli enti locali. Insistere eccessivamente sull’esigenza di una maggiore aderenza della scuola ai bisogni sociali del territorio o alle esigenze del mercato del lavoro non è corretto, perché la scuola non può inseguire i saperi utilitaristici, ma deve piuttosto lavorare sulle competenze durature, sui nuclei forti delle conoscenze, che devono –questi sì- incrociarsi con l’operatività. E, pur essendo fortemente legata al territorio e a segmenti della società con cui deve entrare in sinergia, elaborando specifiche offerte formative, la scuola non può rinunciare all’indispensabile distanza critica che caratterizza la cultura e la spinge ad essere indipendente dagli interessi dell’ambiente sociale. Io credo che la sfida dell’autonomia si potrà vincere non tanto sul piano organizzativo -gestionale del marketing o del management, quanto sul piano dell’innovazione metodologico-didattica, integrando istruzione e formazione in un modello educativo finalizzato alla problematizzazione delle conoscenze. Su questo piano la scuola deve vincere il ritardo in cui si trova rispetto alle innovazioni sociali e culturali. Ho già fatto riferimento in precedenza al progetto PISA, lo studio internazionale promosso dall’OCSE per accertare le conoscenze e le capacità dei quindicenni, il loro rendimento scolastico, ma anche l’atteggiamento nei confronti della scuola (il 35% dei ragazzi italiani non fanno attenzione mai o quasi mai –e questo è uno dei peggiori risultati tra i 32 Paesi dello studio-). Bene, credo che questo studio dovrebbe essere conosciuto non solo dagli insegnanti, ma anche dai politici, per trarne indicazioni circa le politiche di sostegno di nuove metodologie da attivare e da diffondere per migliorare i risultati. Interessante, a questo proposito, è il metodo suggestopedico che si basa sulla "gioia di imparare" senza perdere la serietà del messaggio educativo, metodo così efficace che la formazione professionale degli adulti nell’industria soprattutto tedesca, svizzera, francese e americana si basa già da tempo proprio su di esso. Tra gli aspetti presi in considerazione dallo studio, oltre all’analisi delle strategie dell’apprendimento, c’è l’analisi dell’ambiente sociale. Anche qui emerge un dato interessante: in vari Paesi, come Canada, Finlandia, Islanda, Giappone, Corea, Svezia, l’impatto dell’ambiente sociale di provenienza degli studenti sui loro risultati è ridotto rispetto alla media, a indicare che non c’è quel determinismo stretto di cui si parla in Italia. I docenti Credo che un altro aspetto a cui si deve prestare attenzione sia quello della qualificazione degli insegnanti, i quali costituiscono il perno della riforma, che resterebbe solamente una bella architettura senza il loro apporto convinto. Nella loro formazione credo si debba investire molto, ma bene, verificando se i risultati che ci si attendeva si sono prodotti. Altrimenti occorrerà correggere il tiro. Si capisce che ci possano essere resistenze al cambiamento e all’innovazione in docenti non troppo giovani, poco disposti a rimettersi in discussione sul piano metodologico-didattico e sul piano curricolare, e che quindi la riforma possa trovare ostacoli notevoli, una riforma che, per i suoi contenuti e i suoi obiettivi richiederebbe, invece, una categoria di insegnanti in grado di recepire immediatamente lo spirito e le caratteristiche delle innovazioni. Questa della riforma del profilo professionale dei docenti, con la formazione continua ad essa connessa, è una questione fondamentale e risulta un problema grave se si considera, come evidenziato nell’ultima indagine condotta( a distanza di un anno dalla precedente) dal quotidiano ItaliaOggi (6 maggio 2003), in collaborazione con l’Ufficio internazionale della UIL scuola, un ulteriore progressivo invecchiamento e un’ulteriore riduzione in percentuale dei giovani al di sotto dei 30 anni. "Una situazione", come evidenzia il quotidiano, "che non ha eguali tra gli insegnanti dei Paesi dell’UE". Dal prossimo 1° settembre, degli oltre 70mila insegnanti con incarico a tempo indeterminato, il 42,6% avrà un’età compresa tra i 50 e i 59 anni; il 37,1 % tra i 40 e i 49 anni; il 12,5% tra i 30 e i 39 anni; il 7,3% avrà 60 anni e appena uno scarso 0,5% avrà un’età non superiore a 29 anni. Tra gli insegnanti delle scuole medie, addirittura il 56% avrà un’età compresa tra i 50 e i 59 anni. Il quadro generale potrebbe non cambiare neppure se nel prossimo mese di luglio il governo dovesse autorizzare la parziale copertura degli oltre 27mila posti vacanti, perché a occuparli sarebbero chiamati insegnanti tutt’altro che giovani, avendo alle spalle anni di servizio come "precari". Il PRI e la scuola A conclusione di tutto questo, credo che occorra riflettere sulla posizione che il nostro partito ha sempre tenuto sulla scuola (no al finanziamento delle scuole private e mantenimento del carattere nazionale). Posizione che ribadiamo, anche se credo vada aggiornata nel senso di prestare molta attenzione alle novità introdotte dal federalismo e dalla trasformazione della scuola ,operata dalla legge Bassanini , da istituzione politica (quindi cosa pubblica) in servizio rivolto a degli utenti (quindi cosa privata).. Dobbiamo fare attenzione a che tali novità non finiscano per snaturare quanto previsto dalla Costituzione all’art.33, non solo per quel che riguarda il finanziamento delle scuole private, ma anche –e soprattutto, vorrei dire- riguardo alla libertà d’insegnamento, l’unica garanzia contro una scienza e una coscienza di Stato, contro una verità ufficiale. Questa "libertà da" una dottrina elevata a dogma, particolarmente sottolineata nel corso del dibattito all’Assemblea Costituente, va poi affiancata dalla "libertà", per i docenti, "di" esprimere liberamente la propria cultura, le proprie convinzioni in ordine alle discipline che insegnano, nel pieno rispetto di quella "libertà di pensiero" prevista dall’art. 21 della Costituzione. Quel che noi ci auguriamo è che, passato il momento degli scontri ideologici tra la riforma nazionale e quella regionale che le si contrappone, pur dichiarando il contrario, non si cada nel solito disinteresse per la scuola che ha caratterizzato gli anni passati da parte sia dei politici sia dell’opinione pubblica. L’attenzione su quale scuola verrà fuori dalla riforma dovrà restare alta, perché vogliamo salvaguardare i caratteri della scuola pubblica a cui abbiamo sempre attribuito la massima importanza, quelli fondanti dell’identità nazionale e delle virtù civiche. La posizione dei repubblicani è sempre stata quella di rispetto dell’art.33 della Costituzione, che prevede la libertà per i privati di istituire e gestire scuole, ma" senza oneri per lo Stato". La legge sulla parità ( L. 62/2000) ha trovato un meccanismo di finanziamento compatibile con la Costituzione, ma non ha chiuso il conflitto presente fin dai tempi dell’Assemblea Costituente tra fautori del primato della scuola pubblica e fautori della scuola privata. Il riconoscimento della funzione pubblica alle scuole private paritarie e il loro ingresso nel sistema nazionale di istruzione e formazione hanno attribuito all’aggettivo "pubblico" un significato diverso da quello previsto nella Costituzione. Col varo della legge 62, col governo D’Alema, la connotazione di "pubblico" non è più riservata solo alle scuole dello Stato, ma anche a quelle private di tendenza ideologica. Da quel momento, parlare di difesa della scuola pubblica ha significato anche, obtorto collo, ma secondo le leggi dello Stato, impegnarsi per la difesa delle scuole private. Occorreva, per coerenza, opporsi, come noi abbiamo fatto, a tali leggi, oppure cambiare prima l’art.33 che, finché rimane, non è aggirabile da leggi ordinarie. Aver aperto quella strada, ha significato anche aprire la strada alla scuola "devoluta" di ispirazione leghista, che sarebbe una iattura e a cui, giustamente, si contrappone il richiamo alla Costituzione. E’ vero che molti oggi sostengono che opporsi alle scuole private significa avere un’impronta ideologica e un pregiudizio laicista, ma secondo noi repubblicani è fondamentale che l’istruzione resti di tutti e per tutti. L’istruzione pubblica deve essere neutra dal punto di vista ideologico e religioso, e deve garantire l’effettivo pluralismo. Il solo strumento giuridico capace di garantire questo è la libertà di insegnamento. Ecco perché vi sono gravi sospetti di illegittimità costituzionale della legge n. 62/2000 sulla parità, perché le scuole private appaiono meno garantiste.
Lo studio di Eurydice sull’educazione in Europa e sulla gestione delle risorse nell’insegnamento obbligatorio mostra alcune tendenze in atto: la crescente autonomia delle istituzioni scolastiche, anche nella gestione delle risorse; un accresciuto intervento dello Stato nel finanziare l’insegnamento privato; la previsione di risorse supplementari a vantaggio di alunni svantaggiati. Anche il crescente intervento dello stato italiano a sostegno dell’insegnamento privato trova giustificazione, dunque, in questo quadro, senza ignorare, però, che noi subiamo le pressioni del mondo cattolico. Vorrei aggiungere che la scuola non può e non deve diventare, almeno da parte nostra, terreno di battaglia per ragioni che con la scuola non hanno nulla a che fare. Si tratta di un bene troppo prezioso per inquinarlo con ragioni legate allo scontro politico. Mi piacerebbe che la scuola fosse percepita in Italia come lo è in Francia, e cioè come il primo dei beni pubblici, insieme al sistema della sanità. Là il principio di eguaglianza non viene interpretato come eliminazione delle differenze. Queste sono riconosciute e l’insegnamento serve per gestirle e compensarle. Scopo dell’istruzione pubblica è assicurare a ogni alunno una scolarità che gli permetta di acquisire, oltre alle conoscenze fondamentali, i punti di riferimento indispensabili per l’esercizio della responsabilità e della cittadinanza. Io credo che una scuola di qualità debba essere certamente ispirata a criteri di equità sociale, in modo che i ragazzi di ogni categoria possano accedervi, ma altrettanto sicuramente deve essere una scuola dove lo studio deve tornare ad essere il centro di tutto: senza fatica e studio non si potrà mai raggiungere nessun traguardo nella vita. E’ evidente che nelle due leggi di riforma che abbiamo analizzato si scontrano due concezioni: da una parte c’è il riconoscimento del merito, dall’altra la costruzione di percorsi agevolati perché nessuno debba sentirsi escluso, in una logica che finora ha prodotto un appiattimento verso il basso. Della legge regionale condivido l’impostazione di partenza, quella che, recependo pienamente l’ordinamento nazionale dell’istruzione, riconosce che la scuola deve restare di esclusiva competenza dello Stato. Infatti, la regionalizzazione sarebbe deleteria, visto che significherebbe una frammentazione dell’offerta formativa,che non garantirebbe l’omogeneità della preparazione e gli stessi diritti a tutti gli studenti italiani. Ma non posso condividere né l’impostazione ideologica né il metodo che sta sotto la formula del "non uno di meno", lo slogan adottato dall’assessore regionale. Nella legge Bastico (come prima nella Berlinguer-De Mauro) c’è l’obbligo, per l’istituzione scolastica, di garantire il "successo formativo"; mentre nella legge Moratti si parla di un diritto all’istruzione, ma anche del dovere del singolo di impegnarsi. Nella prima formula io vedo una sorta di deresponsabilizzazione dell’alunno a cui bisogna andare incontro in tutti i modi perché abbia la possibilità di raggiungere un obiettivo anche minimo; nella seconda, invece, c’è un riferimento alla responsabilità dell’allievo, che è titolare del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, diritto-dovere che lo deve stimolare moralmente e praticamente. L’obiettivo del "non uno di meno" sembra, invece, riflettere l’idea di una scuola egualitaria e livellatrice verso il basso. Auguriamoci che non avvenga questo, perché i disastri di tale politica li abbiamo già subiti dopo il 1968 in termini di minor preparazione di base degli alunni,di minore propensione al sacrificio, di minore motivazione allo studio, di promozioni che tali erano solo sulla carta, perché, poi, di fronte alla vita, il problema si presentava in tutta la sua negatività (si pensi che il 30% dei ragazzi italiani a 19 anni non ha ancora una qualifica). La ricerca Vorrei avviarmi alla conclusione con un accenno al problema della ricerca. La riforma degli enti di ricerca, secondo il ministro Moratti, mira a focalizzare tutte le attività degli enti su obiettivi strategici per il Paese, creando una rete capace di integrarsi nel sistema europeo, favorendo la convergenza delle attività di ricerca sugli obiettivi interdisciplinari individuati nel sesto Programma quadro europeo, per aiutare anche il nostro sistema produttivo a recuperare competitività tecnologica. Per eliminare inefficienze, sovrapposizioni o duplicazioni di attività, che disperdono risorse, si dovrebbero accorpare i 110 enti di ricerca in 7-8 macroaree, forse sotto il controllo di una figura amministrativa di nomina ministeriale. La nostra critica è rivolta alla pianificazione della ricerca a livello governativo, con lo scopo quasi esclusivo di ottenere applicazioni pratiche, perché è dalla scienza pura, totalmente libera, che derivano le applicazioni veramente strategiche. Come del resto è stato sostenuto anche nel convegno organizzato qualche mese fa dal partito nazionale, di cui potete trovare informazioni sul sito nazionale del PRI. L’impressione che la riforma sia guidata soprattutto dalla logica dello spoils system ci fa dire che la conoscenza non ha colore politico e che dovrebbe essere interesse di tutti privilegiare il merito e sostenere con risorse adeguate la ricerca, oltre che l’istruzione e la formazione professionale, come elementi strutturali di conoscenza e di sviluppo del Paese. Al di là di quello che il Senato, con un ordine del giorno di indirizzo, ha approvato, occorrerebbe che sulla materia "scuola, formazione e ricerca scientifica" si destinasse una quota di risorse "super partes", tarata sulla media europea, al di sotto della quale non si dovrebbe scendere; mentre le eventuali aggiunte costituirebbero la sfida tra coloro che intendono quei settori decisivi per lo sviluppo del Paese. Naturalmente io credo che più risorse saranno a disposizione di questo settore a livello nazionale e regionale, più sarà marcata la caratteristica di salvaguardia dell’interesse generale e dell’essere "riformatori in movimento" Concludo dicendo che la scuola va difesa e rilanciata, perché è l’unico luogo dove sia possibile una stabile opera di educazione e di formazione: Non dimentichiamo, però, che il perno di tutto debbono essere i protagonisti della scuola: il ruolo dell’insegnante deve tornare ad essere di prestigio e rilevanza; si tratta di vivere questo ruolo con una professionalità più aggiornata e uno spirito civico più forte. Occorre poi ricostruire la scala dei valori, intervenendo su quel terreno dove la cultura dei media, soprattutto la televisione, sta continuando a produrre guasti, falsando la percezione della realtà, tanto che le cose serie e quelle frivole acquistano la stessa rilevanza. Se la scuola riuscisse a creare un rapporto, una collaborazione coi media e con la parte creativa della società , per tentare di incidere sulle abitudini, sulla coazione a imitare che la tv esercita in modo esagerato sui ragazzi, sull’impoverimento del linguaggio indotto proprio da questi mezzi (e impoverimento del linguaggio significa riduzione della capacità di esprimere un ragionamento), forse avremmo realizzato già una buona parte di una vera riforma. |