Governabilità e crisi/Una situazione che ha la sua origine anche nei più diversi protezionismi

Corporazioni, uno dei mali storici di questa Italia

di Giovanni Pizzo

Superata la fase acuta della crisi di Governo, credo sia opportuno fare una riflessione a "freddo" sulle ragioni della crisi di governabilità del Paese. Essa ha origini ben più complesse di quanto non sia apparso in queste settimane; la batosta elettorale di aprile è stata il catalizzatore che ha fatto scaricare una tensione latente sulla coalizione di Governo. Le ragioni della crisi vanno ricercate nel nuovo "dualismo" economico che sta spaccando sempre più il Paese e crea pericolose contrapposizioni territoriali e sociali. Noi lo abbiamo descritto con l'immagine dello "tsunami" (la globalizzazione e l'euro forte) che investe chi sta sulla costa (le imprese sottoposte alla concorrenza) e che vi deve far fronte con sacrifici, distruzioni ed arretramenti, mentre su, in collina, si mantengono lussi e privilegi al riparo dei protezionismi e dei corporativismi, approfittando dei guai altrui.

L'economista e sociologo Mancur Olson, in un libro del 1982, ha sviluppato una interessante tesi sulle ragioni per le quali Paesi, che hanno avuto performance economiche notevoli, da un certo momento in poi, entrano in una spirale di stagnazione e decadenza. E' una sindrome che colpisce i paesi che hanno goduto per decenni di pace e continuità dell'assetto politico – istituzionale; questa continuità, però, fa prosperare quelle che Olson chiama "coalizioni distributive", gruppi di pressione potenti interessati non allo sviluppo ed all'ampliamento delle risorse disponibili, ma all'accaparramento ed alla distribuzione delle risorse esistenti. Questi gruppi, col tempo, diventano più forti e acquisiscono maggiore capacità di condizionamento della politica, fino a bloccare lo sviluppo. Non è difficile adattare la tesi di Olson al caso italiano. Per oltre un sessantennio la pace e la continuità istituzionale hanno fatto crescere e consolidare corporazioni potenti a vario livello (banche, medici, farmacisti, notai, commercianti, università, tassisti, pubblico impiego, ecc.) interessate solo a "consumare" anziché produrre. Il fenomeno "Berlusconi" sembrò rappresentare quella "discontinuità" che avrebbe potuto sconfiggere l'Italia corporativa. Di fronte agli evidenti disastri che lo tsunami stava producendo, il progetto di Berlusconi, sia pure in modo confuso, contraddittorio e senza un chiaro ed organico disegno strategico, ha comunque individuato l'unica strada possibile per mantenere il Paese nel novero di quelli più avanzati: liberare tutte le energie, slegare i lacci e laccioli dell'imponente apparato pubblico, farlo dimagrire e lasciare ai cittadini più iniziativa in campo economico. Le scorciatoie di tipo protezionistico per la difesa dell'attuale assetto produttivo potranno (forse) far vincere qualche elezione, ma, per la ferrea legge dei vasi comunicanti, porterebbero, prima o poi, i salari italiani al livello di quelli dei paesi emergenti e concorrenti.

Ma l'Italia corporativa è molto potente. Sin dall'inizio della legislatura sono partiti i "tarli" che hanno cominciato a lavorare sulle parti più "molli" della quercia berlusconiana. Si è lasciato dissipare l'irruenza iniziale contro provvedimenti che forse erano più "centrali" per il Premier ma che non intaccavano gli interessi concreti delle corporazioni; quando si è passati a questi, le cose sono cambiate. Dal provvedimento sul risparmio, con le connesse vicende che hanno portato al siluramento del Ministro Tremonti, al progetto di riordino delle professioni (da una riforma liberale si è approdati ad una contro riforma), alle norme sui servizi pubblici locali, passando per le varie leggi finanziarie è stato un crescendo di dimostrazione della vigile presenza delle corporazioni. I repubblicani, che hanno sempre avuto come riferimento le sorti del Paese e dei suoi giovani, e non effimeri consensi elettorali o sostegni da questa o quella corporazione, hanno sostenuto lealmente il progetto di liberalizzazione proposto dalla CdL, considerandolo l'unica strada possibile. Nei pochi mesi che restano della legislatura, la CdL dovrà affrontare un drammatico dilemma: proseguire l'attuazione di quel progetto, isolando le parti consumate dai "tarli" o rassegnarsi al progressivo autologoramento, consegnando l'Italia al centrosinistra che molto difficilmente vorrà continuare nel processo di liberazione dell'economia dal quale dipendono le speranze dei nostri figli di avere lo stesso tenore di vita che abbiamo avuto in passato. I repubblicani, comunque proseguiranno nel solco tracciato e si batteranno per una economia liberale ma non "liberista", regolata ma non "pianificata", per restare nel gruppo delle moderne democrazie occidentali.