Convegno sulla riforma della scuola: "Una scuola di qualità per tutti-Legge Moratti e legge regionale due riforme a confronto"

Intervento di M. Concetta Schitinelli consigliere nazionale e Responsabile scuola Pri Emilia-Romagna

Ringrazio per l'invito, ma desidero precisare che ho accettato di partecipare a questo incontro pensando di portare un contributo critico. Far parte della stessa maggioranza non significa doversi uniformare al giudizio univoco sulla riforma Moratti quale è stato espresso da tutti coloro che mi hanno preceduto.

Nella premessa della legge regionale (Bastico) si esprime l'intendimento di non contrapporsi all'ordinamento nazionale, semmai di operare per migliorarlo e qualificarlo. Non mi sembra di aver sentito questo, oggi; ho invece sentito espressioni del tipo: "speriamo che la controriforma Moratti fallisca". Io non sono una morattiana sfegatata, però ritengo di aver analizzato le due proposte sulla scuola sforzandomi di essere obiettiva, almeno questa è la mia presunzione.

La materia su cui questo pomeriggio siamo invitati a dibattere è molto vasta e probabilmente occorrerebbero due convegni: uno sulla riforma nazionale e uno sulla proposta regionale, che si rifà più da vicino alla legge appena abrogata. Condensare in pochi minuti ragionamenti sull'uno o sull'altro articolato non è agevole, perciò mi scuso se farò solo alcuni cenni sulle cose che mi sembrano o più positive o sottoponibili a critica sia dell'uno sia dell'altro.

Passando velocemente in rassegna i cardini del nuovo "Sistema educativo di istruzione e formazione", che riconosce pari dignità e valore educativo alla formazione professionale all'interno di un sistema unico, scorgiamo tra le finalità quella di favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana. Mi piace sentire parlare di una scuola che formi i giovani in senso non solo professionale, ma anche in senso civile (per quanto, all'art. 2, si parli di "formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione"). Quell'ANCHE forse fa intendere che non è solo la Costituzione il modello di riferimento, e questo mi crea qualche perplessità: non vorrei che ci fosse spazio, dentro questa formulazione, per una sorta di confessionalizzazione della scuola; o che stesse serpeggiando l'idea che la Costituzione non è poi così fondamentale. Questo non mi troverebbe certo d'accordo.

Nella legge Berlinguer-De Mauro la scuola doveva garantire "il successo formativo", mentre nella nuova legge si fa riferimento più da vicino alla responsabilità dell'allievo, che è titolare del diritto-dovere all'istruzione e alla formazione. La legge regionale, invece, sostiene la logica del "non uno di meno", che è un obiettivo politico teoricamente lodevole, ma che nella pratica non è detto che produca una scuola di qualità, perché non spinge gli alunni a dare il meglio di sé, inducendo quasi una forma di riconosciuta minorità (dire "hai dato quello che potevi" è diverso dal facilitare il percorso perché tutti abbiano l'illusione di avercela fatta, salvo poi trovarsi nel lavoro con competenze insufficienti. Così si tratterebbe solo di posticipare il momento della verità. In realtà, occorre contrastare la demotivazione allo studio già nei primi gradi della scuola.

Uno dei punti della legge di riforma su cui mi sento di dissentire è l'anticipo dell'età di ingresso, che va a scardinare un sistema efficiente, quale è quello delle materne e delle elementari, introducendo problemi di tipo pedagogico-didattico, organizzativo ed economico, e una discrezionalità che va a scapito del servizio uguale per tutti.

La presenza del doppio canale, invece, sembra più adatta a garantire la qualità dell'istruzione-formazione di quanto lo facesse il precedente sistema, in cui il percorso di studi praticamente unico fino ai 16 anni (col biennio propedeutico, che non aveva una caratterizzazione forte di area e di indirizzo) non incentivava la cultura del lavoro, che rimaneva una scelta residuale, e-al tempo stesso- dequalificava i percorsi di istruzione.

Però, l'attribuzione alle Regioni dell'istruzione e formazione professionale potrebbe creare una dualità dai risvolti incerti su più fronti: dall'offerta delle prestazioni equilibrata su tutto il territorio nazionale, alla possibilità reale di passare da un canale all'altro, financo al contratto degli insegnanti...

Che dire dell'autonomia scolastica, che la stessa legge Moratti prevede debba essere realizzata più compiutamente?L'autonomia non va vista come una semplice formula organizzativa, non è un passaggio di consegne dallo stato agli enti locali per il governo e la gestione della scuola, che non è un apparato periferico dello stato, nè un "ufficio" degli enti locali.Insistere eccessivamente sull'esigenza di una maggiore aderenza della scuola ai bisogni sociali del territorio o alle esigenze del mercato del lavoro non è corretto, perché la scuola non può inseguire i saperi utilitaristici, ma deve piuttosto lavorare sulle competenze durature, sui nuclei forti delle conoscenze, che devono-questi sì- incrociarsi con l'operatività. E, pur essendo fortemente legata al territorio e a segmenti della società, delle cui esigenze deve farsi carico, elaborando specifiche offerte formative, la scuola non può rinunciare all'indispensabile distanza critica che ceratterizza la cultura e la spinge ad essere indipendente dagli interessi dell'ambiente sociale.

Una scuola di qualità deve essere certamente ispirata a criteri di equità sociale, in modo che i ragazzi di ogni categoria possano accedervi, ma altrettanto sicuramente deve essere una scuola dove lo studio deve tornare ad essere il centro di tutto: senza fatica e studio non si potrà mai raggiungere nessun traguardo nella vita.

E' evidente che qui si scontrano le due concezioni: da una parte il merito, dall'altra il costruire percorsi agevolati perché nessuno debba sentirsi escluso, in una logica che finora ha prodotto un appiattimento verso il basso.

Della legge regionale condivido l'impostazione di partenza, quella che, recependo pienamente l'ordinamento nazionale dell'istruzione, riconosce che la scuola deve restare di esclusiva competenza dello stato.

La regionalizzazione sarebbe deleteria e nessuno di noi, credo, si augura che il progetto di dévolution arrivi a compimento, visto che questo significherebbe una frammentazione dell'offerta formativa ,che non garantirebbe l'omogeneità della preparazione e gli stessi diritti a tutti gli studenti italiani. Si tratterebbe di un sistema non certo solidale, ma che approfondirebbe il divario tra regioni ricche e regioni meno ricche.

L'intendimento espresso nella legge regionale di non contrapporsi all'ordinamento nazionale, formulato così è corretto. Di fatto, non so se davvero non ci sia contrapposizione nel momento in cui si utilizzano strumenti diversi e alternativi rispetto a quelli previsti dalla legge di riforma.

Certo, l'obiettivo del "non uno di meno" viene da molti recepito come uno slogan, e comunque sembra riflettere l'idea di una scuola egualitaria e livellatrice. Auguriamoci, come sostiene l'assessore Bastico, che ciò non avvenga, perché i disastri di tale politica li abbiamo già subiti dopo il 1968 in termini di minor preparazione di base degli alunni, di minore propensione al sacrificio, di minori motivazioni allo studio, di promozioni che tali erano solo sulla carta, perché poi, di fronte alla vita, il problema si presentava in tutta la sua negatività (si pensi che il 30% dei ragazzi italiani a 19 anni non ha ancora una qualifica).

Se, come dicono le statistiche, coloro che non raggiungono una qualifica in Emilia-Romagna sono, invece, circa il 10%, questo è certamente da accreditare al nostro sistema formativo, però significa anche che "non uno di meno" deve essere un'operazione di "recupero", e non un'operazione che rischia di frenare l'eccellenza, e quindi di avere una funzione livellatrice verso il basso.

La nostra regione deve ambire a creare un sistema dell'istruzione e formazione professionale che contribuisca a elevare gli standard nazionali, visto che parte da una base economica favorevole e da una grande ricchezza di esperienze formative che dovranno, comunque essere riorganizzate, credo, e qualificate ulteriormente, in una sinergia con il mondo produttivo e col sistema dell'istruzione.

Mi chiedo se esiste già un progetto che renda traducibile in realtà concreta l'obiettivo del "non uno di meno"; se, cioé, sia possibile strutturare un sistema scolastico che personalizzi gli interventi senza dequalificarli. E su quali basi si fonderà: soprattutto sull'operatività o riserverà una quota non trascurabile all'istruzione?

E che cosa si farà perché le imprese recepiscano il grande vantaggio che esse stesse ricaverebbero da una maggiore istruzione dei ragazzi e da un proprio coinvolgimento costante e strutturato rispetto alla scuola? perché, insomma, si possa davvero realizzare quanto dalla legge Moratti prospettato col metodo dell'alternanza scuola-lavoro: la creazione, cioé, di progetti che vedano la compartecipazione di tutti i soggetti interessati, come è previsto anche nella legge regionale all'art.10.

A proposito, perché i criteri per riconoscere il ruolo formativo delle imprese sono giustamente riferiti all'eccellenza dei "risultati ottenuti nella gestione aziendale, alla propensione al miglioramento continuo e alla valorizzazione delle risorse umane", e invece l'accreditamento degli Enti di formazione professionale avviene sulla base dell'attività prevalente?

Da una parte, si tiene conto della qualità e della capacità di stare sul mercato: dall'altra, trattandosi di un sistema a finanziamento pubblico, si privilegia la quantità dell'offerta formativa che non sempre si incrocia con l'effettiva domanda o coi bisogni del sistema produttivo.

Creare il biennio integrato (salvando di fatto l'impostazione berlingueriana), nell'ottica di non mettere il ragazzo di fronte a una scelta precoce tra scuola e lavoro, può essere visto positivamente, a patto che in quel biennio si lavori, sì, per l'orientamento, ma anche e soprattutto per rafforzare le conoscenze, le abilità e le competenze.

Non si può, però, ignorare il fatto che in paesi europei dove è in atto una profonda trasformazione dei modelli scolastici, come in Francia, in Gran Bretagna e in Spagna, viene messa in discussione la convinzione che fino a 16 anni gli studenti debbano frequentare esclusivamente la scuola.

In Spagna, nel dicembre scorso, si è abbassata la scelta a 14 anni.

In Francia, il Collège unique, con percorso scolastico uguale per tutti dai 14 ai 16 anni, che doveva assicurare la diffusione dell'istruzione, ogni anno registra tassi di abbandono scolastico che toccano il 30% degli allievi. Lo stesso avviene in Gran Bretagna.

Chissà se un biennio integrato, con percorsi individualizzati, avrebbe risolto il problema.

Dunque, qualche riflessione bisognerà farla anche in Italia.

L'educazione per tutto l'arco della vita è una delle parole d'ordine degli ultimi anni. Questo settore, importante specie per chi deve aggiornare le competenze professionali, da cui dipendono lo sviluppo economico e sociale, mi sembra risultare troppo oneroso per la Regione, se deve comprendere anche percorsi dedicati alla 3° età. Ci sono delle esigenze obbiettive e primarie cui deve far fronte il pubblico; tutto ciò che è aggiuntivo si fa se uno stato o una regione se lo possono permettere, dopo aver risolto altri bisogni primari, che non sempre invece vengono adeguatamente o sufficientemente supportati.

In ogni caso, la diffusione del sapere deve diventare non qualcosa che è sempre dispensatp da altri, ma qualcosa che va ricercato come un piacere personale, senza gravare sulla comunità.

Una buona scuola dovrebbe suscitare nelle persone il desiderio dell'auto-aggiornamento culturale.

Fondamentale è, invece, qualificare i docenti , quei docenti di cui oggi nessuno ha parlato e che invece costituiscono il perno della riforma, che resterebbe solamente una bella architettura senza il loro apporto convinto.Nella loro formazione credo che si debba investire molto, ma bene, verificando se i risultati che ci si attendeva si sono prodotti. Altrimenti occorrerà correggere il tiro.

Tutto l'impianto previsto costa molto. Occorre, quindi, chiedersi come ottenere le risorse (lo Stato cerca di scrollarsi di dosso certe spese troppo gravose legate alla scuola, quindi penso che non ci si debba aspettare troppo da questo versante). Se i trasferimenti dovessero avvenire come conseguenza dei risparmi effettuati con la riduzione del personale, credo che nessuno di noi li vorrebbe a tale prezzo.

Se si aspira alla qualità, occorre anche affrontare adeguatamente il problema degli organici e del rapporto ottimale docenti-alunni, o pensare ad un diverso utilizzo dei docenti, attraverso la riorganizzazione interna delle scuole: classi aperte, moduli, o altro.

Il fondo regionale per il sistema formativo integrato che si vorrebbe chiedere al governo di creare, per affidarlo poi alla direzione scolastica regionale e alla Regione, non so se abbia molta possibilità di vedere la luce.

Al di là di quello che il Senato, con un ordine del giorno di indirizzo, ha approvato, occorrerebbe che sulla materia "scuola, formazione e ricerca scientifica" si destinasse una quota di risorse "super partes", tarata sulla media europea, al di sotto della quale non si dovrebbe scendere; e le eventuali aggiunte costituirebbero la sfida tra coloro che intendono questi settori "strutturali" e decisivi per lo sviluppo del Paese.

Naturalmente io credo che più risorse saranno a disposizione di questo settore a livello nazionale e regionale e più sarà marcata la caratteristica di salvaguardia dell'interesse generale e dell'essere "riformatori in movimento".

Concludo dicendo che la scuola va difesa e rilanciata, perché è l'unico luogo dove sia possibile una stabile opera di educazione e di formazione. non dimentichiamo, però, che il perno di tutto debbono essere i protagonisti della scuola.

Il ruolo dell'insegnante deve tornare ad essere di prestigio e rilevanza; si tratta di vivere questo ruolo con una professionalità più aggiornata e uno spirito civico più forte.

Occorre poi ricostruire la scala dei valori, intervenendo su quel terreno dove la cultura dei media, soprattutto la televisione, sta continuando a produrre guasti, falsando la percezione della realtà, tanto che le cose serie e quelle frivole acquistano la stessa rilevanza.

Se la scuola riuscisse a creare un rapporto, una collaborazione coi media e con la parte creativa della società, per tentare di incidere sulle abitudini, sulla coazione a imitare che la tv esercita in modo esagerato sui ragazzi, sull'impoverimento del linguaggio indotto proprio da questi mezzi (e impoverimento del linguaggio significa riduzione della capacità di esprimere un ragionamento), forse avremmo realizzato già una buona parte di una vera riforma.

Bologna, 27 marzo 2003