Sulle reazioni al testo della proposta di riforma del reclutamento e dello statuto giuridico dei docenti universitari/Gli autori del ddl sembrano muoversi in un sistema che godrebbe di ottima salute, avviato verso un futuro contrassegnato dalla gloria e dal successo

L'ambiente deteriorato che accoglierà i futuri vincitori delle selezioni

di Francesco Zaccaria*

Forti e vivaci reazioni sta suscitando, nel paese e nell'università, il testo della proposta di riforma del reclutamento e dello stato giuridico dei professori universitari recentemente presentata in Parlamento su delibera del Consiglio dei Ministri. Un recente articolo pubblicato su questo giornale dalla prof. Alberghina esprime in modo egregio alcuni dubbi ed incongruenze del progetto.

Ma l'ampiezza delle critiche mosse al contenuto del d.d.l. e l'asprezza di alcune posizioni sono il chiaro segnale dell'esistenza di un profondo disagio delle componenti del mondo universitario e quindi fanno ritenere che il problema essenziale non riguardi tanto la riforma dello status dei professori, ma l'assetto complessivo dell'Università italiana.

Il vizio fondamentale, direi quasi l'equivoco, dell'ultima riforma proposta sta in questo: che i riformatori sembrano muoversi (o dichiarano di muoversi) in un sistema universitario che gode di ottima salute, avviato ad un futuro di gloria e di successi e che, per dare un tocco finale di perfezione, non rimanga che modificare le procedure di accesso e di selezione dei professori ed i doveri di questi ultimi.

In realtà il sistema universitario è oppresso da una serie di fattori critici che rischiano di portarlo al collasso e di distruggere una tradizione di cultura universitaria italiana plurisecolare. L'università italiana, che fu quella di Luigi Einaudi, di Santi Romano, di Enrico Fermi o di Francesco Severi sta trasformandosi non già in un "esamificio" (come si diceva un tempo) ma in un "creditificio". In realtà, le riforme sull'istruzione superiore adottate da circa un quindicennio sono state, anche se ragionevoli e piene di buone intenzioni, mal interpretate o in altri casi sono state adottate con approssimazione e leggerezza che hanno sfiorato la deliberata volontà di distruggere.

Primo punto: l'autonomia delle università. Nel 1989 l'on Ruberti propose ed ottenne l'approvazione di un disegno di legge che conferiva autonomia statutaria alle università. Cosa in teoria molto bella e tale da conferire maggiore dignità alle istituzioni universitarie. In quegli anni l'autonomia statutaria venne conferita ad altri enti pubblici come i comuni e le province. Sennonché l'autonomia delle università è stata forse mal impostata ed utilizzata con poca saggezza dagli organi competenti ad esercitarla. Ne sono scaturiti statuti fortemente differenziati, soprattutto sul piano delle metodologie elettorali, con molti ostacoli alla realizzazione di un buon governo dell'Università. Ad esempio, il rettore dell'università X può essere eletto, a norma di statuto, dai soli professori, mentre nell'università Y, a venti chilometri di distanza, il rettore è eletto, a norma di statuto, dai professori, da tutti i ricercatori, dal personale non docente e da un certo numero di studenti. Ora prevalgono gli statuti di secondo tipo - sono quasi la maggioranza - sicché i rettori sono eletti, in buona parte delle università italiane, da corpi elettorali estesissimi, frammentati ed attenti ai loro interessi settoriali. I rettori sono costretti, nella campagna elettorale e nella gestione dell'ateneo, a mediare con mille difficoltà fra interessi talora contrapposti. Ed alcune componenti (ad esempio gli studenti) hanno dubbia legittimazione ad eleggere il rettore che deve essere espressione di realtà accademiche. L'autonomia statutaria delle università, in definitiva, va meglio regolata e armonizzata con regole generali dello Stato

Secondo punto, la struttura dell'università disposta con la riforma del 1999. Questa venne adottata non ostante le molte e circostanziate critiche da parte del mondo universitario. Venne adottata senza alcun serio confronto politico e conseguente decisione in Parlamento, con determinazioni della burocrazia ministeriale che ha elaborato, negli uffici dell'amministrazione, il decreto ministeriale n. 509. L'idea di conferire un primo titolo di studio dopo tre anni e di ammettere gli studenti più qualificati ad un corso superiore è certamente valida ed è in linea con la normativa europea, ma l'applicazione è stata veramente problematica e richiede un urgente intervento strutturale ed incisivo.

Oggi, in primo luogo, gli studenti e le famiglie sono disorientati per l'espansione incontrollata e disordinata dell'offerta didattica, con una serie di corsi di laurea di poco spessore e di bassa qualità, talora improvvisati e legati ad interessi di piccoli gruppi. Corsi proliferati spesso senza programmazione e razionalità.

Inoltre, la metodologia dei crediti è stata applicata nel modo peggiore. La programmazione e l'elaborazione dei corsi da parte delle università sono legate ad un meccanismo a dir poco farraginoso ed irrazionale (qualcuno dice allucinante) certamente limitativo dell'autonomia delle facoltà e degli atenei. I decreti d'area fissano arbitrari e cervellotici limiti quantitativi di "attività formative" (guai a parlare di insegnamento o di cultura – queste parole sono bandite dal decreto ministeriale n. 509) di base, caratterizzanti ed affini od integrative, e v'è un complesso sistema di redazione di regolamenti didattici di ateneo in difficile rapporto rispetto ai vincoli dei "decreti d'area". I regolamenti didattici possono essere modificati solo dopo invio al Ministero e parere del CUN. Il numero dei crediti assegnati a ciascun insegnamento (errore! "attività formativa") è una mannaia inesorabile. Ogni credito costituisce una misura di "lavoro" di apprendimento; se per un insegnamento, magari di filologia romanza o di istituzioni di diritto privato, sono previsti 8 crediti, che sono tanti nel nostro sistema universitario, l'insegnamento stesso deve comportare soltanto 200 ore di "lavoro" fra lezioni e studio e non una di meno. I programmi di studio si sono immiseriti. Peggio ancora, i nostri studenti non sono più giovani partecipi di un messaggio culturale ed educativo, attenti ad un serio percorso per conseguire il sapere. Essi, per acquisire la sospirata laurea, devono "lucrare" 180 crediti per il primo livello ed altri 120 per il secondo livello. Il sistema sta portando livellamento verso il basso del livello degli studi, standardizzazione e ottusa rigidità. Esso si basa, infatti, sull'ipotesi (evidentemente falsa in base al senso comune) che tutti gli studenti siano eguali quanto a capacità innate, doti acquisite e volontà e che, quindi, le attività formative possano essere misurate con strumenti validi per tutti. Dalla nostra università sono stati banditi (e vengono coltivati in segreto da pochi nostalgici devianti) la curiosità di esplorare nuovi orizzonti di ricerca, lo spirito di sacrificio, la passione per il sapere. Gli organi universitari, ed in particolare i consigli di Facoltà, hanno speso mesi di lavoro, anche con lacerazioni profonde, per adeguare gli ordinamenti e graduare l'articolazione dei crediti. I professori universitari, fra moltiplicazione dei corsi e tanto lavoro amministrativo per maneggiare questa complessa riforma, stanno abbandonando le attività essenziali di ricerca e di collegamento con le correnti culturali internazionali.

Vale infine rammentare che tutta la riforma del 1999 è sospetta di incostituzionalità. E' incredibile, ma una modifica normativa così decisiva, che trasformava la gloriosa università dello Stato italiano da istituzione di alta cultura e di ricerca scientifica in una "agenzia formativa", trova la sua base in soli due comma dell'art. 17, che ne conteneva più di cento, di una legge di contenuto generale (la 18 maggio 1997, n. 127) la cui intestazione non menzionava in alcun modo l'università. L'intitolazione della legge era "Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo". I due comma conferivano al Ministro per l'università una delega (in grave violazione di ogni principio in materia di delega di potestà legislativa) a legiferare in materia di missione dell'università italiana e di struttura dei corsi. Ma la materia dell'università è sottoposta a riserva di legge in quanto l'art. 33 della Costituzione stabilisce che le università hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti "stabiliti da leggi dello Stato" e non da decreti ministeriali.

Una situazione di crisi. Grave e non ovviabile con pannicelli caldi come il proposto sistema ad Y. Non si vede, quindi, come sia possibile pretendere di legiferare solo sul tema dello status dei professori senza sapere in quale contesto assai deteriorato andranno ad inserirsi questi nuovi efficienti e bravissimi professori che (si dice, ma non è provato) usciranno dalle nuove selezioni.

E' invece essenziale che si ritorni alla Costituzione investendo il Parlamento di un progetto di riforma dell'intero sistema universitario. Del resto l'attuale maggioranza ha tutto il diritto (ma forse anche il dovere) di correggere gli errori commessi dal precedente governo.

La riforma di oggi, dopo attenta riflessione e serio confronto in Parlamento, dovrebbe comprendere poche ed essenziali regole di fondo sull'università, sulle sue strutture e governo nonché sul suo finanziamento ed una delega, con precisi limiti e criteri, al Governo in armonia con la Costituzione. Invito tutti i colleghi dell'Università che hanno a cuore la tutela della cultura italiana a farsi sentire, ad esprimere il loro parere e, se del caso, ad alzare la loro voce anche al di là delle posizioni partitiche. L'urgenza di salvare l'Università italiana non è di destra o di sinistra ma coinvolge tutti.

*Preside della Facoltà di Economia dell'Università S. Pio V