Regole fondamentali di un partito/Perché è necessario dotarsi dei cosiddetti statuti Quando un giudice interno risolve le controversie di Tommaso Alibrandi La vita interna di ogni partito è disciplinata da regole (statuto, regolamenti), che non derivano da leggi dello Stato ma sono poste dagli organi dello stesso partito (congresso, consiglio nazionale e via dicendo). La situazione non è esclusiva dei partiti, anzi è diffusa ad ogni forma di associazione. Un esempio molto interessante ne sono le federazioni sportive, ma anche un semplice circolo di canottieri ha il proprio statuto e i propri regolamenti. Questo fenomeno – che tecnicamente prende il nome di pluralità degli ordinamenti giuridici – si completa con l'istituzione di giudici interni a ciascuna associazione (probiviri, giudici federali). A costoro, e non ai magistrati dello Stato, spetta il compito di applicare il diritto interno, risolvendo le eventuali controversie tra gli associati. Tutto questo meccanismo abbastanza complesso, non è illegale perché si fonda su una delega più o meno esplicita, della legislazione statale alle varie forme di associazione. E ciò lo Stato consente sia per un rispetto di evidente matrice liberale verso il fenomeno dell'associazionismo e della conseguente autonomia degli associati di regolare a loro discrezione la vita associativa, sia per ragioni di carattere pratico e tecnico, giacché certi aspetti delle attività esercitate dall'associazione non consentono l'intervento dell'autorità statale. Ogni tifoso di calcio sa bene che se la regolarità di un goal o della concessione di un rigore dovesse dipendere non dall'arbitro ma dalla magistratura, tanto varrebbe chiudere il campionato. Ma che succede se qualche regola dell'ordinamento interno entra in conflitto con la legislazione statale? La prima, e più facile risposta, è che la soluzione di questo conflitto spetta ai giudici dell'associazione (probiviri, ecc.). Ma se qualche iscritto, non soddisfatto della decisione del giudice interno ricorre a quello dello Stato, che succede? Qui il problema si fa difficile. Per molti anni la magistratura italiana ha declinato ogni potere ritenendo intangibile il principio dell'autonomia associativa (salvo l'ovvio rispetto della legge penale). Ma ormai da parecchio tempo la maggioranza dei tribunali è orientata in senso diverso. Ed il problema tecnicamente è veramente molto complesso, giacché, se da una parte non è possibile negare al cittadino il diritto di far valere le proprie ragioni davanti al giudice dello Stato, d'altra parte è anche vero che quello stesso cittadino al momento in cui entra a far parte di una associazione ne accetta liberamente le regole, tra le quali c'è anche quella di accettare la competenza del giudice interno per risolvere le controversie relative al gruppo organizzato. Una ragionevole soluzione di questo dilemma era quella adottata da una clausola dello statuto della Federazione italiana gioco calcio (che però da qualche tempo non viene più applicata) secondo la quale il tesserato che facesse ricorso a tribunali ordinari era passibile di espulsione dalla Federazione. In tal modo si contemperava l'intangibile diritto al giudice naturale con le esigenze dell'associazione, senza che il tesserato potesse gridare allo scandalo, giacché proponendo l'azione giudiziaria si collocava di sua libera volontà fuori dell'associazione. In ogni caso, se giuridicamente il problema è molto complesso, politicamente la situazione sembra assai più chiara. Qualsiasi tifoso di calcio sa che negli ultimi anni molte squadre promosse o retrocesse sul campo sono state poi retrocesse o promosse per ordine di questa o quella magistratura, e sa anche bene quali guasti abbia portato questo andazzo al mondo del calcio nel suo complesso. Analoghi ma ben più gravi guasti si produrrebbero se un simile andazzo si dovesse generalizzare anche nel mondo politico. Del resto, al diritto non si può chiedere più di quanto esso possa dare. Secondo un articolo del codice civile, i figli sono educati dai genitori di comune accordo. Ma anche un non esperto capisce immediatamente che se l'accordo c'è o non c'è, dipende soltanto dalla realtà dei fatti, e che nessuna norma di legge può imporre a due coniugi di andare d'accordo. Il diritto per sua natura può soltanto regolare le conseguenze di una rottura. E così, se un giudice dello Stato ha assegnato a Buttiglione la titolarità dello scudo crociato, è ben vero che questa sentenza è intervenuta dopo che l'unità della Democrazia Cristiana era già andata in pezzi. |