Ricette keynesiane e tasse/Il presidente dell'Edera è intervenuto sul quotidiano di Polito

Ridurre le imposte senza tagli equivalenti di spesa

Articolo pubblicato su "Il Riformista" del 2 novembre 2004.

di Giorgio La Malfa

Caro direttore, in queste settimane mi sono tenuto rigorosamente fuori dalle discussioni sulla riforma fiscale perché in materia ho delle opinioni che, temo, siano distanti sia da quelle della maggioranza, sia da quelle, peraltro complessivamente fumose, dell'opposizione. Visto però che, con gli articoli di Giannino e l'intervento di Salvati, il "Riformista" ha iniziato a approfondire la questione, vorrei precisare il mio punto di vista.

Nella sua intervista a "La Stampa" il Presidente del Consiglio ha difeso la sua proposta di riduzione delle imposte affermando che essa andrebbe "a beneficio della ripresa della nostra economia". Io condivido questa idea ed è la ragione per cui nei mesi scorsi ho espresso un orientamento favorevole all'ipotesi di riduzione del prelievo fiscale. Ritengo però che, perché si determini un effetto favorevole sull'andamento dell'economia, sia necessario che il taglio abbia una certa consistenza dal punto di vista quantitativo e soprattutto che esso non – sottolineo non – sia compensato da equivalenti tagli delle spese. L'effetto di stimolo alla domanda deriva cioè da un aumento del disavanzo pubblico.

Naturalmente so che una parte degli economisti sostiene che le politiche keynesiane – e questa è una tipica politica keynesiana – sono del tutto inefficaci in quanto i mercati finanziari incorporando immediatamente l'effetto negativo dell'aumento del debito pubblico frustrano l'effetto positivo atteso dall'aumento della domanda. E' una questione aperta sul terreno scientifico, come sono molte delle questioni che appartengono a questo ambito di problemi, ma sulla quale, a mio avviso, gli effetti positivi sull'economia americana dei tagli delle imposte di Kennedy negli anni '60, di Reagan e di Bush in tempi a noi più vicini, offrono motivi sufficienti per sostenere che varrebbe la pena di seguire questa strada. Aggiungo fra parentesi, perché questo ci porterebbe lontani dall'argomento, che io non considero le politiche di bilancio come la via maestra per stimolare la ripresa economica; e tuttavia, dal momento che la politica monetaria europea è condotta in modo da far sì che l'euro valga il 30% più del dollaro, il ricorso al bilancio pubblico (ed al deficit) diviene inevitabile, come mostra la situazione di un numero crescente di paesi europei, fra cui la Francia e la Germania.

Mi è altrettanto nota l'obiezione ulteriore a questa mia tesi che la situazione del debito pubblico italiano è tale che una riduzione delle imposte non coperta da tagli equivalenti non solo farebbe scattare le reprimende della Commissione europea, ma potrebbe anche riflettersi in un aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico italiano. Forse lo stesso presidente del Consiglio muoverebbe questa obiezione. Io non condivido questa preoccupazione e mi sentirei di difendere una decisione italiana di aumentare per un paio di anni il deficit oltre il 3% nell'attesa di una ripresa che riporti, attraverso l'aumento delle entrate, il bilancio entro i limiti di Maastricht. Ma se invece questa opinione non è condivisa e non si vuole correre il rischio del superamento provvisorio del tetto del 3%, allora la conclusione alla quale si perviene è che non si possa procedere al taglio delle aliquote.

La soluzione alla quale lavora il governo – quella di ridurre le imposte coprendone il costo con tagli equivalenti della spesa – è, per me, del tutto sbagliata. Se infatti si copre una riduzione delle entrate con un'equivalente riduzione della spesa, si vanifica completamente lo stimolo alla ripresa proveniente dall'aumento del reddito disponibile. La spesa pubblica, infatti, buona o cattiva che sia dal punto di vista della sua produttività, contribuisce alla domanda aggregata tanto quanto le riduzioni delle imposte: è reddito nelle mani di qualcuno, tanto quanto lo è il maggior reddito che deriva dal minore prelievo fiscale. Quindi delle due l'una: o si tagliano le imposte in deficit, oppure, dal punto di vista del sostegno alla ripresa di cui parla il presidente del Consiglio, l'effetto è praticamente nullo. Io, lo ripeto, rischierei e taglierei le imposte in deficit. Se non lo si può fare, allora la riduzione compensata diviene una cosa diversa da una politica di stimolo alla ripresa.

Non è detto che in sé la riduzione compensata non possa essere utile da un altro punto di vista. Qui si pongono le questioni delle quali hanno discusso Giannino e Salvati. Scartato l'uso dei tagli delle imposte a fini di sostegno congiunturale dell'economia, si può discutere se sia meglio, ai fini della crescita del sistema nel medio periodo, uno stato più leggero, con meno spese e meno entrate, oppure uno stato più pesante, che spenda di più in settori rilevanti per lo sviluppo, ma finanzi questa spesa con aliquote più elevate. Ma a parte che gli argomenti a favore dell'una o dell'altra tesi non mi sembrano avere un fondamento empirico particolarmente cogente, si tratta di risultati di medio periodo. Se il governo intende sposare questa impostazione può farlo, ma la motivazione della duplice operazione di riduzione del prelievo e di riduzione della spesa non è quella di sostenere la ripresa dell'economia – come ha dichiarato il presidente del Consiglio – ma quella di assicurare all'economia italiana un miglior andamento in un futuro non necessariamente prossimo.