Difesa del suolo e competenze: l'unico modo per raggiungere risultati efficienti è quello di adottare una politica basata sulla cooperazione/Definire criteri affidabili per la scelta delle priorità. Il ruolo del Ministero dell'Ambiente e i suoi strumenti: il ritiro dei finanziamenti rappresenterebbe l'"ultima spiaggia" e una sconfitta Tutela del territorio: dal groviglio normativo ad un federalismo meditato e "intelligente" Relazione presentata al Convegno Apat su "Interventi strutturali per la difesa del suolo", Roma, 17 novembre 2005. di Francesco Nucara Sono chiamato al compito più difficile: concludere un discorso appena tratteggiato nelle sue linee essenziali e, soprattutto, formulare una sintesi di interventi complessi ed articolati, proiettandola in un futuro progettuale. Come dire: sembra quasi di dover ricominciare, più che concludere. Proverò ad assegnare alle mie conclusioni tre confini più o meno rigorosi. I tre universi di discorso che tratterò riguarderanno, innanzitutto, le competenze; quindi gli strumenti; ed infine gli obiettivi relativi agli elementi strategici delle opere di difesa suolo. Ciò - tradotto in termini semplici ma di sicura efficacia - identifica, in primo luogo, chi è l'artefice degli interventi di difesa del suolo; successivamente, come lo si fa ovvero gli strumenti più idonei alla realizzazione ottimale dell'intervento stesso; in ultimo, a cosa serve e quali siano, dunque, le finalità espresse dall'intervento medesimo nel suo "farsi". Ovviamente, ciascuna di queste partizioni non può essere immaginata come separata dal contesto generale: inoltre, per ciascuna di tali prospettive è possibile evidenziare quali siano le componenti che necessitano di azioni di miglioramento; quali i rischi e le specifiche opportunità; quali, soprattutto, le possibili azioni di indirizzo politico. Ne viene fuori un quadro assai composito, difficile da ricondurre ad unità nelle sue molteplici variegature. Le competenze Innanzitutto, in tema di competenze. Queste risultano essenzialmente dall'originario dettato normativo della legge n. 183, recante "Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo" che, nel 1989, vide finalmente la luce. Secondo quanto recita l'art. 1, essa mira ad "assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi." Alla realizzazione di tali attività erano chiamati secondo l'ambito delle rispettive competenze - una serie di soggetti pubblici: "lo stato, le regioni a statuto speciale e ordinario, le province autonome di Trento e Bolzano, le province, i comuni, le comunità montane, i consorzi di bonifica ed irrigazione e quelli di bacino montano". La legge individuava i soggetti competenti in materia di difesa del suolo: a livello centrale, il Presidente del Consiglio dei ministri; il Ministro dei lavori pubblici ed il Ministro dell'Ambiente e, come organi di nuova istituzione, il Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore per la difesa del suolo; la Direzione generale della difesa del suolo (in cui viene trasformata la vecchia Direzione generale delle acque e degli impianti); i servizi tecnici nazionali istituiti presso la Presidenza del Consiglio dei ministri sotto l'alta vigilanza del Comitato dei ministri. Su questo schema si è sovrapposto il decreto legislativo n. 300 del 1999 che attribuisce le competenze in tema di difesa del suolo al Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio ed all'APAT, l'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e per i Servizi Tecnici. Il ruolo della Protezione civile In tale quadro -già complesso per l'intervento, sotto vari profili, di due organi istituzionali centrali (MATT ed APAT)- si innesta l'ulteriore competenza della Protezione civile: organo competente - sia pure tenendo in debito conto la profonda diversificazione della tipologia degli interventi tecnici- il cui ruolo insindacabile concerne le zone già interessate da un disastro ovvero minacciate dall'imminenza di una calamità. Tale sistema di competenze ha ricevuto l'importante avallo della Corte costituzionale, che, àdita su ricorso della regione Veneto, ha ritenuto la legge in questione conforme al sistema di ripartizione delle competenze Stato - Enti locali. Lo spirito della legge (ha peraltro suggerito il giudice delle leggi) risiede nel senso che l'obiettivo della difesa del suolo è finalità che coinvolge funzioni e materie assegnate tanto alla competenza statale, quanto a quella regionale e provinciale. Essendo, dunque, un obiettivo comune allo Stato ed alle regioni, la difesa del suolo può essere perseguita soltanto attraverso la via della cooperazione tra l'uno e gli altri soggetti. Nuovi elementi Tuttavia, la cooperazione trova un ulteriore elemento di complessità nella riforma del titolo V della Costituzione e nella necessità di "collocare" la materia della "difesa del suolo". Occorre intendersi su di un punto: la collocazione della materia non è finalizzata ad una sistematica giuridica priva di effetti pratici; al contrario, dalla collocazione nascono le competenze e, dunque, si definiscono le relative potestà legislative. Perché, se collochiamo la "difesa del suolo" nell'ambito del "governo del territorio", siamo nell'ambito del comma 3 dell'art. 117 della Costituzione e, perciò, nel novero di una materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni; se viceversa, la "difesa del suolo" è collocata quale valore funzionale alla tutela dell'ambiente, essa, pur non escludendo la titolarità in capo alle regioni di competenze legislative, postula un limite a tale possibilità di intervento derivante dalla competenza esclusiva dello Stato, ai sensi della lettera "s" del comma 2 dell'art. 117 Cost., relativa alla "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali". Come si vede, il groviglio di competenze deriva dal fatto che si sono innanzitutto accavallate tra loro normative diverse e, di più, che esse, hanno dovuto poi "scontare" la loro collocazione nel nuovo titolo V della Costituzione. Migliorare il coordinamento Dunque: la prima componente che necessita di azione di miglioramento è effettivamente il coordinamento tra i soggetti. Peraltro, con un'azione politica improntata alla condivisione ed alla definizione chiara dei ruoli tra gli organi competenti è possibile realizzare, oltre che una migliore efficienza, una serie di economie di scala, oggi impensabili nella indeterminata confusione operativa cui spesso si assiste. Ciò nondimeno, subito dopo aver segnalato la difficile convivenza tra le diverse competenze, è necessario individuare il non facile approccio al "come si fa" l'intervento. La conoscenza del territorio rappresenta, certamente, la base per la sua corretta gestione: e questo richiede che la Pubblica Amministrazione abbia a disposizione strumenti che le permettano di fruire del patrimonio informativo attualmente disponibile. L'utilizzo, la diffusione e la gestione degli strumenti informatici rappresentano un supporto fondamentale per l'attuazione di coerenti politiche di programmazione e pianificazione da parte di tutti i soggetti preposti al governo del territorio. Questi strumenti consentono, infatti, di gestire, organizzare in modo sistematico ed omogeneo nonché mettere a disposizione degli Enti e degli operatori, le informazioni sulle caratteristiche reali del territorio, le quali rappresentano il necessario riferimento alla definizione degli obiettivi generali e dei contenuti dei piani. Permettono, inoltre, di valutare la reale sostenibilità ambientale e territoriale delle scelte di programmazione, sia nella fase della loro determinazione che in quella della loro attuazione. Sappiamo bene come ancora la situazione nazionale in materia di dati ambientali sia disomogenea e come una delle cause prioritarie della loro disaggregazione sia da cercare nella molteplicità delle "fonti" di elaborazione (dalle pubbliche amministrazioni alle università; dagli enti agli istituti di ricerca pubblici e privati) alla quale si assomma il problema tecnico della non confrontabilità delle informazioni; sappiamo pure quanto l'accesso stesso ai dati da parte delle comunità interessate sia difficoltosa. A tale realtà, che sembra paradossale in tempi di comunicazione globale, il Ministero dell'Ambiente vuole contrapporre una azione di indirizzo e, insieme, di coordinamento. Omogeneità necessaria Già il DL 279/2000 convertito nella L 365/2000, assegnava al Ministero dell'Ambiente il compito di acquisire e rendere disponibili i dati d'interesse per le politiche relative all'assetto del territorio ed alla difesa del suolo in possesso di ciascuna amministrazione nazionale o locale che fosse. L'omogeneità dei dati sarebbe stata garantita dagli standard definiti dal Sistema Cartografico di Riferimento, realizzato previo apposito accordo con le Regioni e divenuto rapidamente operativo soprattutto riguardo alla prevenzione ed alla tutela dal rischio idrogeologico. E qui viene, finalmente, in rilievo -quale strumento "conoscitivo" ideale- l'esecuzione di un vero "monitoraggio" realizzabile in presenza di una azione organica ed organizzata. Orbene, quando ci si riferisce ad un'impresa articolata e complessa -come un grande progetto, un piano o un programma articolati- il monitoraggio è inquadrabile fra le tecniche del "Project Management", accanto a "pianificazione", "valutazione ex ante", "valutazione ex post", e così via; esso rientra, quindi, fra gli strumenti che il responsabile dell'azione pone in essere per il conseguimento degli obiettivi della sua azione. La sistematica fase di monitoraggio degli investimenti pubblici è una esigenza derivante dalle procedure comunitarie. Il termine, e le relative tecniche di attuazione, sono stati diffusi in Italia dalla Commissione europea che ha richiesto un'azione strutturata di monitoraggio nell'ambito dei programmi di attuazione del Quadro Comunitario di Sostegno 1994/99 e, in modo ancora più pressante, per il QCS 2000/2006. Burocrazia Il nostro paese non ha una cultura di monitoraggio, noi siamo più portati al controllo burocratico. La sua specifica applicazione è tutt'altra cosa. Il termine deriva infatti dall'inglese "monitor", che, a sua volta, proviene dal verbo latino "monère" la cui traduzione è "ammonire", "avvisare". Infatti, lo scopo ultimo del monitoraggio è quello di un'azione "attiva" nei confronti dell'attuazione dell'impresa, il cui fine è quello di intercettare i problemi, prevenire le cause, assicurare l'avanzamento, fornire informazioni per il miglioramento dell'azione. Tanto per banalizzare, "monitoraggio" è quello che si realizza nel cruscotto della nostra automobile quando il computer di bordo ci segnala la velocità, mentre l'autovelox della polizia, che misura anch'esso la velocità, ha ben altra funzione! L'Italia, per allinearsi alle esigenze comunitarie, ha introdotto il Monitoraggio degli investimenti pubblici (MIP) con l'art. 1 commi 1 e 5 della legge n. 144 del 17 maggio 1999, nell'ambito della "costituzione di unità tecniche di supporto alla programmazione, valutazione e monitoraggio degli investimenti pubblici e della relativa banca dati". E' bene ricordare ulteriormente come si tratti di competenza "esclusiva" dello Stato in forza del titolo V della Costituzione che sempre all'art. 117 detta alla lettera "r" del comma 2, norme in merito al coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell'Amministrazione Statale, Regionale, Locale. Con successive delibere CIPE sono state regolamentate attività e strumenti per la piena attuazione di quanto previsto dalla legge, con la istituzione del CUP (codice unico di progetto) nel contesto del MIP. I lavori sono tuttora in corso, ma la direzione lungo la quale si procede è senz'altro quella giusta. Un livello soddisfacente di monitoraggio è stato conseguito, come dicevamo, per il QCS, PON e POR in corso. E' in questo quadro che, naturalmente, si inserisce l'azione avviata con l'incarico all'APAT per il monitoraggio degli interventi urgenti, per la riduzione del rischio idrogeologico finanziati dal D.L. 180/98 e successive modifiche e integrazioni. In questa ottica di organizzazione sinergica e di proficuo coordinamento, pur nel rispetto assoluto delle competenze di pertinenza di tutti gli enti coinvolti nel gravoso impegno della difesa del suolo, l'Apat ribadisce il proprio ruolo di "affidataria" da parte del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio (del quale essa è parte integrante) dell'azione di monitoraggio. In particolare, il Dipartimento propone la realizzazione del cosiddetto "Progetto ReNDiS" acronimo che indica il "Repertorio Nazionale degli Interventi per la Difesa del Suolo inteso come piattaforma per la futura evoluzione dell'azione di controllo. Il coinvolgimento dei partners istituzionalmente interessati è, ancora una volta, condizione indispensabile alla efficienza operativa. Un ottimo lavoro Pieno riconoscimento, dunque, alla struttura dell'Apat per l'ottimo lavoro svolto: sottolineerei, in specie, come proprio nel contesto degli sviluppi del MIP nazionale, trovi ottimale collocazione il progetto ReNDIS. A questo proposito, vorrei richiamare l'attenzione su un altro prezioso quanto attuale strumento di "indagine": il cosidetto Piano Straordinario di Telerilevamento. In Italia vi sono circa 13.000 aree a rischio di frana, alluvione e valanga. Tuttavia, ad oggi, l'individuazione di tali aree non è precisa perché effettuata a scala medio-piccola (1:25.000) e, cautelativamente, a gran parte di esse è stata attribuita la classe a massimo rischio (R4). Un'individuazione imprecisa, però, genera inefficienze tecniche e diseconomie in fase di prevenzione, monitoraggio, pianificazione e programmazione. Il Piano Straordinario di Telerilevamento ad alta precisione nasce per far fronte a queste problematiche e si propone, ricorrendo alle moderne tecnologie di telerilevamento satellitare ed aereo, attivo (radar) e passivo, di soddisfare a due esigenze prioritarie. Intende contribuire, innanzitutto, ad individuare l'esatta perimetrazione delle aree a rischio (scala di riferimento 1:2.000); mira, in seconda istanza, a monitorare i fenomeni fisici nelle aree a rischio precedentemente caratterizzate. L'avvio del Piano Straordinario di Telerilevamento presume la stipula dei seguenti due accordi necessariamente propedeutici alla sua messa in atto: la stesura di un Protocollo di intesa tra MATT e Ministero della Difesa per le attività di validazione e collaudo delle informazioni territoriali derivanti dall'attività stessa: protocollo, peraltro, già siglato; nonché la definitiva approvazione da parte della Conferenza Stato-Regioni, istituzione competente, presso la quale la procedura è tuttora in corso. Le informazioni territoriali prodotte dovranno essere condivise sfruttando l'infrastruttura telematica del Sistema Cartografico Cooperativo del Portale Cartografico Nazionale. I fondi del Piano Straordinario di Telerilevamento (circa 22 Milioni di Euro) provengono dalla Finanziaria 2001 (art.27). Obsolescenza tecnologica Dunque: anche per gli strumenti, il rischio maggiore proviene dalla obsolescenza tecnologica dello strumentario tradizionale da cui scaturisce l'opportunità del suo esatto contrario: vale a dire dal miglioramento dell'approccio tecnico al problema, che reca con sé la migliore efficacia dell'intervento. In tale prospettiva, l'azione politica fondamentale è la promozione di concrete sinergie di intervento con gli altri Ministeri: penso, soprattutto, ad un lavoro di squadra tra il MATT ed il Ministero per l'Innovazione Tecnologica; ma anche ad un concerto tra le varie componenti centrali per il rapido utilizzo delle risorse disponibili. Ma non basta. I profili di maggiore problematicità emergono allorquando si affronta l'aspetto inerente agli obiettivi dell'intervento a difesa del suolo. In altri termini: la maggiore problematicità si evidenzia nel momento in cui ci si chiede "a cosa serve" l'intervento. Qui si ripresenta, in fase dinamica ed operativa, la problematica confusione esistente a livello di competenze. Perché se diversi sono i soggetti deputati all'intervento, diversi saranno anche i tempi dei loro interventi e, soprattutto, problematica la verifica dei tempi nonché della conformità tecnica degli interventi medesimi. Direi, anzi, che il vero, sostanziale problema delle opere di difesa del suolo risieda proprio nella difficoltà delle verifiche, del buon fine, insomma, dell'intervento. La verifica presuppone, in prima istanza, il controllo del dato temporale, variabile essenziale per l'ottimizzazione dell'obiettivo della difesa del suolo. Verificare i tempi significa poter controllare, dopo l'erogazione del finanziamento per la realizzazione dell'intervento, lo stato di avanzamento dei lavori in relazione alla spesa effettuata. Ma significa, anche e soprattutto, poter effettuare una "verifica di merito": vale a dire poter accertare, per l'istituzione che provvede al finanziamento, la conformità tecnica dell'intervento realizzato rispetto alla finalità prevista. Ed è questo, a mio avviso, il vero cuore del problema: a chi spetta la definizione delle criticità; chi è il soggetto deputato a farlo ed, ancora, quali sono i canali attraverso cui tali determinazioni pervengono all'ente finanziatore dell'intervento. Se, in breve, esiste oggi un "nervo scoperto" dell'intervento di difesa del suolo, esso è rappresentato da questa nebulosa che nessuna normativa ha, fino ad oggi, davvero deterso, circa i soggetti ed i modi di individuazione di quelle criticità del suolo che esigono l'immediato intervento di difesa. Troppa indeterminatezza Mi rendo conto che nessun sistema normativo possa essere così "ingessato" da formalizzare, in una legge, i presupposti per l'intervento, le concrete modalità per individuarli, tutti i soggetti, le procedure e quant'altro serva a "fissare" una quadro che, per sua natura, è dinamico e mobile. Ma i livelli di indeterminatezza che, sul punto, abbiamo raggiunto costituiscono il disdicevole estremo opposto, che si riflette negativamente sulla qualità dell'intervento stesso. Se, infatti, il sistema delle verifiche temporali e di merito diviene diafano, fin quasi l'invisibilità, ne discende che non si potranno mai stabilire dei criteri di priorità; non si potranno mai attuare delle economie di scala; che la difesa del suolo, insomma, rischia di divenire un enorme canale di finanziamento di "altro", magari genericamente collegato alla tutela ambientale, ma assolutamente estraneo alla difesa del suolo. Per contro, quest'ultima esige, come ogni vera difesa, un requisito imprescindibile: l'efficacia, che discende dalla sua tempestività e dalla immediata realizzazione della finalità cui l'intervento è diretto. Ora ciò che mi pare manchi completamente nella strategia degli interventi a tutela del suolo è, appunto, questa possibilità di verificare, di "incanalare", cioè, l'intervento in un target che ne certifichi la tempestività e la funzionalità. Soluzioni estreme Cosa può realmente controllare il Ministero dell'Ambiente rispetto all'obiettivo proclamato di un intervento ad un micro-livello territoriale? E quali sono le azioni correttive a sua disposizione? Si dirà: ma il Ministero ha (potrebbe avere!) in mano la formidabile arma del ritiro dei finanziamenti. Orbene, se questa è la prospettiva, la collaborazione istituzionale è già fallita ed il rischio del danno (disastro?) ambientale già moltiplicata. Perché, ricorrere al ritiro del finanziamento è già proclamare una sconfitta: soluzione estrema che cela il rischio, ben più consistente, di una mancata realizzazione dell'intervento, rispetto alla quale la perdita del finanziamento risulta essere il male minore. Ecco perché, a fronte della minaccia di una "sanzione" quale il ritiro del finanziamento, preferirei altri strumenti di verifica-controllo-dissuasione. Penso, in specie, ad una seria assistenza tecnica da parte di una task force ministeriale di alta specializzazione tecnica deputata ad assistere e controllare l'intervento locale. Penso, in sostanza, ad un controllo in fieri, ad una vera e propria organizzazione di un servizio di assistenza gestito da esperti, per gli enti locali; penso ad una attribuzione di poteri aggiuntivi di controllo e di impulso agli organi competenti. In tale prospettiva, il ritiro dei finanziamenti è davvero l'ultima spiaggia, nell'ambito di una attività di monitoraggio che la struttura ministeriale deve poter continuamente esercitare sulla concreta esecuzione dell'intervento. Federalismo intelligente Né si dica che questa prospettiva risulta quasi nostalgica del centro che controlla la periferia, del vertice che eroga i soldi, ma vuole controllarne l'impiego che ne fa la base. Il problema è piuttosto quello di un federalismo intelligente anche in materia di difesa del suolo. La ricognizione delle esigenze del territorio non può che competere agli enti locali: solo a livello locale è possibile individuare -prima che sopravvenga l'ennesimo, irreparabile disastro territoriale- il punto di criticità, l'esigenza non procrastinabile dell'intervento. Ma nessuna "regionalizzazione" che non voglia essere isterica o cieca (o, peggio ancora, demagogica) può pensare seriamente di rinunciare ad una prospettiva unitaria, ad un'azione di coordinamento che parta dai centri istituzionali; che si nutra di verifiche e di correzioni; che abbia, insomma, un occhio più lungo e sistematico per evitare che la difesa del suolo si trasformi nell'ennesimo finanziamento "a pioggia" di realtà del territorio che, dopo il progetto di intervento, risultano ineluttabilmente - più indifese di prima. |