Italia, un bilancio energetico/Quando anche la nostra competitività finisce per risentirne

Il "no" al nucleare e l'utilizzo massiccio di petrolio

"Energia vs competitività" è il convegno che si è svolto a Bologna martedì 8 novembre. Riproduciamo la relazione di Francesco Nucara.

di Francesco Nucara

La conferenza nazionale sull'energia, tenutasi nel 1987, viene a ragione considerata l'inizio "storico" della crisi energetica italiana, confermata definitivamente dal fallimento dei tentativi di pianificazione: di fatto tre piani energetici nazionali e due piani dei trasporti vennero accantonati. Il sistema politico non seppe - o comunque non volle - far proprie le indicazioni unanimi che il sistema tecnico-scientifico ed il sistema economico-industriale gli suggerivano: così il dopo-Chernobyl fu caratterizzato, in massima parte, da una adesione alle analisi ideologiche che provenivano dal sistema ambientalista.

Qualcuno ricorda come, anche autorevoli esponenti del mondo accademico giungessero a sostenere, allora, che l'energia nucleare da fissione non sarebbe stata mai una fonte sostanziale di approvvigionamento energetico mentre, per contro, la fusione nucleare controllata era quasi a portata di mano ed avrebbe condotto - entro il 2015 - alla produzione del primo chilowattora. Si poteva, dunque, rinunciare tranquillamente alla prima affidandosi all'arrivo imminente della seconda.

Oggi sappiamo che purtroppo così non è stato.

Gli stessi ricercatori che lavorano ai progetti di fusione nucleare (ad esempio nell'ambito della JET o della ITER, le joint venture internazionali) rinviano il raggiungimento del loro obiettivo a dopo il 2040. E senza alcuna certezza.

Nel frattempo, il consumo energetico mondiale è, come sappiamo, destinato ad aumentare - tra il 2000 ed il 2020 - del 60%, circa, a causa della crescita demografica, della persistente urbanizzazione e dello sviluppo economico e industriale, mentre il consumo di elettricità, la forma più versatile di energia, aumenterà, quasi, del 70%: non è più ipotizzabile, dunque, che la crescita della domanda possa essere soddisfatta con i combustibili e le tecnologie tradizionali, assurte, talora, a concreta minaccia non solo dell'ambiente naturale e della salute pubblica ma anche della stessa stabilità internazionale. L'attenzione, nell'ultimo decennio, si è rivolta, necessariamente, alle fonti rinnovabili tanto classiche, con la produzione di energia idraulica o geotermica, quanto innovative, con lo sviluppo di energia solare termica e fotovoltaica o, ancora, eolica; accanto, beninteso, ai combustibili "alternativi" derivati da rifiuti, biomassa e biocombustibili. Già il summit di Johannesburg, nel 2002, aveva suggerito, in alternativa ai combustibili fossili, l'opportunità di utilizzare tecnologie per le energie rinnovabili.

In Italia - in assenza del nucleare quale unica alternativa valida ai combustibili fossili - il cammino della politica energetica fu necessariamente quello della incentivazione delle fonti rinnovabili.

Orbene il motto "Ricerca, innovazione e sviluppo" (all'insegna del quale è stato correttamente proposto questo convegno) rischia di costituire solo una espressione di moda ed una vuota formula magica di nuovi apprendisti stregoni, qualora si dovesse prescindere dall'oggettività dei numeri.

Voglio dire - provocatoriamente - che spesso il linguaggio della politica si rifugia dietro le frasi convenzionali e le parole di facciata ed ha maggiori difficoltà ad affrontare una realtà di cifre, stime, percentuali, insomma di "quantità".

Per un volta, allora, mi sottraggo alla tentazione della paludosa parola politica e cerco una sintesi - al termine di queste poche ed intense ore - con l'intento di affidarmi quasi esclusivamente a dati oggettivi, per definire ed esplicare i concetti.

Cosa significa quindi, in concreto, ricerca, innovazione e sviluppo in materia energetica?

Significa, in primo luogo, che, in Italia, gli addetti al settore fotovoltaico sono 1.000, contro i 6.000 del mercato tedesco e gli oltre 15.000 di quello giapponese. Ora, le rinnovabili sono energie e non magie: sono fatte da uomini e mezzi, per cui, con ogni magnanimità di lettura dei numeri, mille soggetti impiegati sono solo mille lavoratori di un settore che, a giudicare da tale parametro, è - innanzitutto - microscopico. Ma lo è, purtroppo, l'intero settore delle energie rinnovabili, in valore percentuale, rispetto alla sua produttività. Le fonti rinnovabili hanno coperto, nel 2004, appena il 7 per cento della domanda energetica nazionale: se poi andiamo a scomporre il dato stesso delle rinnovabili, scopriamo che la percentuale più elevata (pari al 60 per cento) è ancora affidata all'energia tradizionalmente alternativa, vale a dire l'idroelettrico, mentre eolico e solare non arrivano, assieme, al 3 per cento.

Questi dati sono, peraltro, in controtendenza rispetto all'Europa: Germania e Spagna conoscono trend di crescita per le tecnologie fotovoltaiche davvero notevoli e la Danimarca, ad esempio, primeggia per crescita produttiva in relazione alla produzione di energia eolica.

Inoltre, non devo essere io a rammentare che, a fronte di tale sostanziale stagnazione nel settore delle rinnovabili, la domanda complessiva di energia elettrica in Italia, nel 2004, ha conosciuto un incremento dell' 1,5 % rispetto all'anno precedente: ciò significa che, con un tasso di crescita dell'economia attestato all' 1,2 %, si configura un aumento dell'intensità elettrica del Pil pari allo 0,3 % rispetto al 2003.

Queste cifre sono strumento opportuno per sostenere ed argomentare concetti. Fino a questo momento, infatti, i numeri mi dicono che consumiamo più energia, ma non affrontiamo tale maggior domanda con le fonti rinnovabili, statiche a livelli di quasi insignificanza.

Dominano le energie tradizionali

E, difatti, alla maggior domanda si è fatto fronte con una maggiore offerta dell'energia tradizionale prodotta nel territorio italiano, offerta che ha raggiunto circa l' 86 % del fabbisogno, con un incremento del 3,7% rispetto al 2003, mentre il rimanente 14 % è stato coperto con importazioni nette, in calo tuttavia rispetto all'anno precedente, di circa un 10 %.

E le cifre dicono ancora che un incremento sia pure minimo, sia pure poco incidente sui grandi numeri dei consumi, c'è anche nell'ambito delle energie alternative: la produzione delle geotermiche, eoliche e fotovoltaiche risulta aumentata del 7,1% rispetto al 2003 ed, in particolare, la fonte eolica conosce incrementi addirittura nell'ordine del 26 %.

Al di là delle percentuali ovviamente relative, che cosa significa?

Che consumiamo di più e che questo surplus di consumi è fronteggiato con una maggiore produzione di energia tradizionale interna; che siamo ben lungi dal raggiungere l'autonomia energetica, ma che, complessivamente, affrontiamo la maggior domanda non già incrementando l'acquisto dall'estero, ma forzando una produzione lorda tutto sommato tradizionale.

Dico "tutto sommato" perché, se è vero che le cifre ci danno valori percentuali in crescita delle alternative, è altrettanto indubbio che, in termini di valori assoluti e, soprattutto, di comparazione con i valori medi europei, la quota di energia elettrica ricavata da fonti alternative è ancora estremamente bassa.

Oggetto di mercato? No

Si dirà che in Italia l'energia come oggetto di mercato è appena agli albori, un neonato da far crescere; che dopo quarant'anni di statalizzazione, la liberalizzazione del mercato è partita solo cinque anni fa e che fino all'1 luglio dello scorso anno - prima, cioè, dell'estensione della soglia di idoneità a tutti i clienti non domestici - gli stessi contorni della liberalizzazione erano incerti. Si dirà che un mercato che conosce solo oggi lo spostamento di ingenti quantitativi di energia dal mercato vincolato (che ha conservato, comunque, nel 2004, una quota pari al 51 % dell'intero mercato) a quello libero non è ancora un mercato assestato e, anzi, non è ancora un mercato in senso pieno. Tutto vero.

Ma è proprio questo il problema dell'energia in Italia, la variabile che rende, nel nostro Paese, assai più complessa la pianificazione strategica, per il Governo, per affrontare le sfide del futuro sui risparmi energetici e sulle alternative.

Difficili piroette

Dico questo perché, mentre in Italia ci assestiamo con difficoltà nel mercato dell'energia; mentre cerchiamo di evitare - con una piroetta economica assai difficile - di consumare di più, producendo di più, senza indebitarci, però, di più con l'estero e cercando di più il ricorso alle alternative, l'Europa e la Comunità internazionale non ci aspettano più.

La complessità del problema energetico è oggi rappresentata, in realtà, da impegni internazionali che risultano ineludibili e che, soprattutto, sembrano temporalmente incompatibili con i tempi di assestamento e di "recupero" delle energie alternative di cui un mercato interno appena liberalizzato necessita.

In breve, quello dell'energia non è un mercato chiuso, indifferente al contesto internazionale ed impermeabile alle variabili che l'adesione ai trattati sovranazionali impone.

Ecco allora che il meccanismo semplice: "maggiori consumi, maggiore produzione, incremento delle energie alternative", conosce una variabilità in ragione di fattori che non direttamente attengono alla produzione energetica in sé, ma che incidono indubbiamente su di essa.

Provo a sintetizzarli.

Obiettivi di riduzione

Innanzitutto dobbiamo fare i conti con la riduzione delle emissioni in ambito UE e per l'attuazione nazionale del Protocollo di Kyoto. L'obiettivo di riduzione assegnato all'Italia pare modesto in valore assoluto, essendo di appena il 6,5 %, la metà circa di quanto prescritto alla Gran Bretagna (- 12, 5 %), un terzo circa di quanto è obbligata la Germania (- 21 %). Ma queste cifre non devono ingannare, nel senso di ritenere il nostro Paese in una situazione privilegiata, perché chiamato a "ridurre" una percentuale inferiore di emissioni. In realtà, i maggiori oneri di riduzione sono stati posti a carico di paesi aventi struttura produttiva a bassa efficienza e ad alto impiego di carbone; viceversa, l'Italia (o anche l'Olanda, che si trova nell'identica posizione) sconta il minor valore assoluto della riduzione, con un livello di efficienza già raggiunto e senza avere un sistema energetico ad alto impiego di carbone, come Inghilterra e Germania. Attuare la riduzione con la contemporanea acquisizione di efficienza produttiva o limitando l'alto impiego di carbone, costa marginalmente meno di quanto costi ad un sistema, come quello italiano, che aveva già raggiunto il proprio livello di efficienza intorno al 1990 e la cui produzione energetica non contemplava un alto impiego di carbone. Ecco perché ridurre, per l'Italia, solo di un 6,5 % costa di più che, per la Gran Bretagna, ridurre di quasi il doppio (12,5 %) e per la Germania di quasi il triplo (21 %). Oltretutto, la percentuale "italiana" accettata nel 1998 si fondava su di uno scenario non più attuale, per l'innesto di ulteriori obiettivi che hanno interagito con il sistema quali variabili assai "pesanti".

Non dimentichiamo, infatti, che solo nel 2001 (dunque dopo tre anni circa della fissazione della percentuale di riduzione citata) è stata assunta, quale priorità in ambito energetico, la sicurezza degli impianti attraverso il c.d. decreto "sblocca centrali" proposto dapprima da Enrico Letta e coltivato, nell'attuale governo, dal suo successore, Antonio Marzano, ed infine approvato dal Parlamento. Ora - per citare ancora un dato - l'obiettivo della sicurezza energetica comporta che, ad esempio, le emissioni di anidride carbonica per il settore elettrico avranno, prevedibilmente al 2010, una crescita stimata di oltre il 20 %.

Obblighi di riduzione

Pensare, dunque, ad una strategia per la futura governance dell'energia significa non solo considerare il fabbisogno; limitare l'indebitamento con l'estero, non eccedendo nelle importazioni; avviare il programma delle alternative; migliorare la liberalizzazione del mercato e rafforzarlo con l'auto-produzione; rispettare le riduzioni di Kyoto, badando, senza la costruzione di nuovi impianti, a convertire il termoelettrico ad olio combustibile in centrali combinate a gas naturale; ma anche rispettare l'impegno della sicurezza energetica, con i connessi incrementi di emissione che confliggono con gli obblighi di riduzione di Kyoto e con le esigenze di fare energia guardando ai conti dello Stato.

Nondimeno, la politica del Governo ha, proprio in questo intricatissimo ginepraio di variabili conflittuali, ottenuto un significativo successo, proprio sul piano dell'attuazione della direttiva "Emission Trading" (2003/87/CE) che istituisce il mercato di emissione all'interno della Comunità Europea. Dopo un faticoso negoziato con la commissione Europea, conclusosi lo scorso 31 maggio, in merito al Piano Nazionale di assegnazione delle quote di CO2, è stato sancito, in quest'ultimo, per il periodo 2005-2007, un aumento delle emissioni del sistema industriale del 10%, contro un'ipotesi iniziale di riduzione del 6,5%. Tale originaria percentuale avrebbe comportato un tetto di 200 milioni di tonnellate/anno di anidride carbonica, con una drastica riduzione della produzione nazionale o, in alternativa, con costi marginali elevatissimi per la ulteriore riduzione di CO2.

Eventualità scongiurata, per fortuna: ma l'innalzamento, a 232,5 milioni di tonnellate di CO2/anno "strappato" alla Commissione, incide sul programma energetico nazionale, se è vero che, in cambio, l'Italia ha assunto l'impegno sia a dare piena attuazione alla direttiva europea sulle fonti rinnovabili 2001/77/CE, sia a ri-finanziare, presso la Banca Mondiale, l' Italian Carbon Fund, al fine di garantire, per il triennio 2006-2008, una adeguata disponibilità di "crediti" per coprire l'eventuale sforamento tra il tetto dei permessi attribuiti all'Italia e le emissioni effettive.

L'alta efficienza

Accanto a tale problematica, l'ulteriore strategia per il futuro energetico del Paese è rappresentata dalla messa a punto e diffusione di motori industriali ad alta efficienza.

L'aumento dell'efficienza energetica nel settore industriale costituisce uno strumento primario per attuare il risparmio energetico, riducendo le emissioni di gas serra. Il risparmio stimato per tale progetto è di 7,2, TWh (Terawattora) con un corrispondente abbattimento di CO2 fino a 3,6 milioni di tonnellate/anno.

Proprio tale ultimo profilo, mi introduce alla possibilità di accennare, sia pure per sintesi, agli ulteriori programmi e progetti pilota nazionali, che affiancano, nella politica energetica del Governo, quelli internazionali.

Innanzitutto, per i fini che qui interessano, mi pare di grande rilievo politico e programmatico il progetto che prevede la produzione di elettricità, calore e frigorie attraverso la piccola cogenerazione distribuita ad alto rendimento. Ancora una volta, tale progetto consente il raggiungimento di un doppio obiettivo: coprire, entro il 2012, il 20% circa della domanda nazionale di elettricità ed abbattere circa otto milioni di CO2 all'anno.

Ovviamente, sono già in stato avanzato due progetti pilota, con know how tutto italiano, per la realizzazione di pannelli fotovoltaici a film sottile ad alta efficienza e per la produzione ed immagazzinamento di calore ad alta temperatura a partire dalla captazione di energia solare, il cosiddetto "progetto Archimede".

Ancora: è già finanziata ed in fase di attuazione la progettazione e la realizzazione di un distretto con produzione decentrata e distribuita di energia elettrica, al fine di trarre economie di scala per la gestione della rete di distribuzione, che rendano la struttura del sistema elettrico nazionale più flessibile e compatibile con l'ambiente.

Intendo ancora sottolineare - in ragione delle potenzialità applicative immediate - l'avvenuta istituzione dell'Osservatorio Nazionale sulle fonti rinnovabili e l'efficienza negli usi finali dell'energia, attivo fin dal marzo 2005.

Funzione di stimolo

Esso ha soprattutto una funzione di stimolo nei confronti dell'Autorità per l'elettricità ed il gas, nonché del Gestore della rete, con lo scopo di assicurare il pieno rispetto della normativa nazionale ed europea, in relazione alla priorità di erogazione, nella rete elettrica, della elettricità proveniente da fonti rinnovabili. Questa azione è costantemente sostenuta dal Ministero dell'Ambiente, al fine, soprattutto, di vincere la resistenza "culturale" all'uso ed alla diffusione delle fonti rinnovabili in Italia. Inoltre, l'Osservatorio sta svolgendo un ruolo di fondamentale importanza anche rispetto alle Regioni ed alla conseguente diffusione delle rinnovabili sul territorio.

E' stato, oltre a questo, emanato il decreto che avvia la prima fase dell'incentivazione della produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte solare. Il decreto ha registrato un immediato successo: le domande presentate nella prima scadenza del 30 settembre del 2005 hanno infatti già saturato i limiti di potenza installata previsti.

Campagna di informazione

E' stata pure avviata la campagna di informazione e comunicazione a favore delle fonti rinnovabili e dell'efficienza negli usi finali dell'energia mentre sono in fase di emanazione una serie di decreti, aventi ad oggetto la promozione delle fonti rinnovabili per il triennio 2007-2009.

In particolare, sono previsti incrementi di quota minima di elettricità da fonti rinnovabili; si vuole incentivare la produzione di energia elettrica dalla fonte solare mediante cicli termodinamici; è in programma l'individuazione di rifiuti - e combustibili derivati dai rifiuti - ammessi a beneficiare del regime giuridico riservato alle rinnovabili per la fissazione dei valori di emissione consentiti; sono state fissate le linee guida per lo svolgimento del procedimento autorizzativo degli impianti ed il loro corretto inserimento.

Viceministro ma anche segretario

Il mio intervento si è svolto finora sul piano istituzionale ribadendo le posizioni ufficiali del Ministero dell'Ambiente più volte sostenute dal Ministro Matteoli.

Adesso desidererei affrontare gli argomenti trattati come segretario del Pri.

Vorrei esprimere provocatoriamente qualche mia perplessità che derivo pur sempre dall'analisi di "numeri" e dal mio personale impegno a scorrere i fatti con lo sguardo asettico della razionalità. Premetto immediatamente che non nutro alcuna riserva nei confronti delle fonti rinnovabili alle quali può e deve (come abbiamo visto) competere un ruolo importante - tuttavia sempre termodinamicamente realistico - nella copertura del fabbisogno energetico italiano.

I dati relativi all'investimento per lo sviluppo delle rinnovabili nel periodo 1981/2002 sono forniti dal Ministero delle Attività Produttive e consentono di stimare in circa 99.000 miliardi di lire (ovvero 51,1 miliardi di euro più del triplo della Finanziaria 2004) l'impegno complessivo sostenuto dallo Stato per il rilancio del settore.

Alla fine del 2003, i dati ci dicono che le rinnovabili contribuiscono per il 6,5 % della copertura del nostro fabbisogno energetico complessivo. Ora, però, questo contributo è, più che altro, legato alle fonti classiche (idroelettrico e geotermico) nonché alla legna da ardere; le fonti innovative e quelle alternative rivestono un ruolo marginale.

Vogliamo scomporre il dato in riferimento alla produzione di energia elettrica?

Se le rinnovabili sono classiche

Complessivamente le rinnovabili hanno fornito il 17,9 per cento dell'energia elettrica, attribuibile, però, per la quasi totalità alle rinnovabili classiche: nell'ordine del 15,6 per cento all'idroelettrico; dell'1,8 per cento geotermoelettrico e di uno 0,5 per cento ascrivibile alle rinnovabili nuove considerate nel loro insieme. Se dovessimo "riferire" questo contributo ai citati 51,1 miliardi di euro ci troveremmo di fronte ai chilowattora più preziosi del mondo. E, come fa efficacemente notare il Professor Spezia, mentre si continua a gridare che lo Stato non ha fatto e non fa abbastanza e che le rinnovabili costituiscono il futuro energetico del paese, il contributo massimo ottenibile da esse non coprirebbe, nel 2020 oltre il 5 per cento del fabbisogno interno: secondo le stime fornite dal documento TERES II del programma ALTENER della Commissione europea.

Le incentivazioni introdotte dal provvedimento CIP 6/92 obbligano il gestore della rete ad acquistare a prezzo "politico" l'energia prodotta da fonti "rinnovabili" o "assimilate". In particolare, il provvedimento differenzia tra: prezzi di cessione dell'energia elettrica prodotta da impianti esistenti e prezzi di cessione dell'energia elettrica prodotta da nuovi impianti.

I contributi complessivi netti per chilowattora prodotto sono stati fissati in modo da rendere competitive la maggior parte delle fonti rinnovabili; per esempio, il chilowattora prodotto da nuovi impianti fotovoltaici o a biomassa è stato pagato anche oltre trecento lire (in valuta del 1997). Ebbene, pure a fronte di questo meccanismo di incentivazione il mercato non ha risposto sino ad ora in misura sufficiente.

Le nuove fonti rinnovabili possono certamente fornire un contributo importante in un'ottica di razionalizzazione dei consumi energetici, ma sono destinate dalla termodinamica ad avere un "ruolo integrativo", non "sostitutivo", rispetto alle fonti fossili ed al nucleare.

Il bilancio energetico complessivo del nostro Paese dipende per l'82 per cento del fabbisogno dall'importazione di fonti energetiche: ciò comporta una spesa annua che, già nel 2003, aveva superato i trenta miliardi di euro. Il fabbisogno nazionale è coperto per il 65 per cento dal ricorso agli idrocarburi. Nel sistema elettrico la situazione è ancor più grave: la dipendenza dall'estero raggiunge l'84 per cento e la dipendenza dagli idrocarburi il 75 per cento.

Due immediate conseguenze

Così, a causa dell'impiego intensivo di petrolio nella produzione di elettricità, due sono le immediate conseguenze. La prima di queste è costituita dai problemi sempre più imponenti della salvaguardia dell'ambiente rispetto ad una energia "sporca" che rende di fatto irraggiungibili gli obiettivi di riduzione delle emissioni previsti dal protocollo di Kyoto; in secondo luogo, vanno considerati i dilemmi sempre più pressanti dell'aumento inesorabile della spesa rispetto ad una energia "costosa".

L'energia elettrica prodotta in Italia, ci fa notare ancora il professor Spezia, costa il 60 per cento in più della media europea, il doppio di quella prodotta in Francia ed il triplo di quella prodotta in Svezia: la capacità italiana di competere sui mercati internazionali è ormai pesantemente condizionata da queste cifre laddove il costo dell'energia grava intollerabilmente sul sistema industriale e pesa inevitabilmente sul bilancio delle famiglie. Con le prime avvisaglie di crisi del mercato petrolifero (in Europa dopo la crisi degli anni Settanta) i paesi industriali hanno avviato politiche di diversificazione del mix energetico che hanno sostanzialmente condotto ad una progressiva riduzione del contributo degli idrocarburi unitamente ad un progressivo, parallelo incremento del carbone e dell'energia nucleare.

Abiura italiana

Non così è stato in Italia, dove l'abiura al nucleare ha determinato un aumento del ricorso agli idrocarburi al punto che, è stato calcolato, l'Italia brucia più petrolio per produrre energia elettrica di quello impiegato per lo stesso motivo in tutti gli altri paesi europei messi insieme.

Attuare il Protocollo di Kyoto, secondo le valutazioni del Ministero dell'Ambiente costerebbe, oggi, all'Italia 360 dollari per abitante a fronte dei cinque della Germania e dei tre della Francia che "dipendono" dal nucleare la prima per il 33% e la seconda per il 78%.

Concludendo, vanno benissimo le energie rinnovabili, ma le stesse devono essere congruenti con un sistema industriale moderno, efficiente ed efficace.

La politica ambientale deve essere intesa come incentivo allo sviluppo, non come freno.