Voto immigrati/Lettera di Giorgio La Malfa a "La Stampa"

Caro direttore,

l'inatteso mutamento di posizioni dell'on. Fini sui temi dell'immigrazione rischia di spingere il nostro paese verso decisioni, come quella della concessione del voto nelle elezioni amministrative, non precedute ed accompagnate da una sufficiente ponderazione e maturazione. Su questi temi condivido le preoccupazioni espresse dal ministro Urbani nell'intervista a La Stampa, mentre mi sembra che le controargomentazioni di ieri di Enrico Rusconi alle considerazioni del ministro siano un po' troppo sbrigative.

Rusconi, dopo avere premesso che la concessione del diritto di voto nelle elezioni amministrative agli immigrati regolari non è un problema umanitario o di buona coscienza etica, avanza due considerazioni a sostegno dell'opportunità del voto. La prima è che essa altro non sarebbe che "un'estensione del nostro concetto occidentale di cittadinanza"; la seconda è che la partecipazione alle elezioni favorirebbe "un processo di apprendimento democratico".

Vorrei fermarmi su ambedue le affermazioni. Circa "l'estensione del diritto di cittadinanza", osservo che non vi è una ragione evidente per affermare che il lavorare in un paese faccia sorgere un diritto di partecipare alle elezioni. Talvolta si usa l'argomento che chi paga le imposte ha diritto alla rappresentanza. Ma a fronte del pagamento delle imposte vi sono dei servizi generali che lo Stato rende al lavoratore che giustificano o dovrebbero giustificare il prelievo fiscale. Il voto – ed a mio avviso non vi è una distinzione fondamentale fra voto politico e voto amministrativo – è stato tradizionalmente ed è giusto che rimanga una delle manifestazioni dell'appartenenza ad una Comunità. Esso è dunque essenzialmente connesso con la cittadinanza. La cittadinanza si può ottenere o per nascita o per acquisizione, ma essa significa la condivisione dei valori fondativi di una Comunità che sono generalmente espressi in una Costituzione.

La scelta per un immigrato di richiedere la cittadinanza di un altro paese, rispetto al proprio paese di nascita, non è una scelta facile. Essa segna un distacco dal proprio paese e la decisione di entrare a fare parte di un'altra comunità. E' giusto che una volta acquisita la cittadinanza, ne segua il diritto di voto, ma non vedo la ragione di attribuire un diritto di voto a chi appartenga e continui ad appartenere ad una diversa comunità.

Il secondo argomento di Rusconi – l'apprendimento democratico - è altrettanto poco convincente ed è soprattutto un argomento sgradevolmente paternalistico. Vi sono immigrati che provengono da paesi di assai antica civiltà che non hanno alcun bisogno di votare in Italia per essere ‘educati' alla democrazia ed alla tolleranza. Ve ne sono altri che hanno o potrebbero avere concezioni assai distanti da quelle che sono poste alla base della Costituzione italiana – per esempio concezioni dei rapporti fra religione e politica o fra uomini e donne – che verrebbero in un certo senso convalidate dal riconoscimento di un diritto al voto, nonostante tali concezioni. Mi sembra che negli Stati Uniti, all'atto dell'acquisizione della cittadinanza, sia previsto l'obbligo del giuramento di fedeltà alla Costituzione di quel paese. Penso che l'esistenza e la crescente diffusione di religioni e movimenti fondamentalisti, indipendentemente anche dalle questioni del terrorismo, debba invitare tutti alla prudenza.

In sostanza, penso che non vi sia ragione alcuna di precipitarsi a prendere decisioni su questa materia. E' molto meglio discutere dell'argomento in seno all'Unione Europea ed attendere la definizione di un atteggiamento comune dell'Europa su questi problemi. Nel frattempo se si ritiene che l'Italia abbia una legislazione troppo restrittiva in materia di acquisizione della cittadinanza, si può decidere di abbreviare la durata del tempo necessario a richiedere ed ottenere questa condizione.

Giorgio La Malfa

"La Stampa" 22 ottobre 2003