Federalismo e disarmonie/Le teorie di Cattaneo e i moniti avanzati da svariate autorità

Questo qualunquismo è estraneo alla democrazia

di Katia Mammola

Se Alice decidesse, nei giorni in corso, di far visita a questo nostro strano Paese delle Meraviglie, si chiederebbe, perplessa, quali delle possibilità inverosimili o delle bizzarre metamorfosi o, ancora, delle parodie amene del Regno dello specchio, vogliano trovare nuova rappresentazione nelle variegatezza delle opinioni che il dibattito relativo alle Riforme federali dello Stato (ed alla loro approvazione) ha suscitato nel mondo dell'informazione e nella colorita subway che sottende gli artefici, a vario titolo, di una inquietante Repubblica federale italiana.

Al pari dell'irricomponibile disordine semantico di Lewis Carroll che minacciava apertamente l'ordinato universo vittoriano, le sfide della compagine leghista sembrano voler sovvertire l'armonia e i delicati equilibri della splendida Costituzione che i padri fondatori ci hanno lasciato in eredità. Ed è proprio Giuliano Amato (relatore del disegno di legge da cui prese le mosse la riforma del titolo V) a domandarsi se sia auspicabile l'ingresso del federalismo nella nostra Costituzione e se ciò corrisponda tanto ad una effettiva volontà popolare quanto al nostro medesimo essere italiani in ragione della nostra storia ed in forza del nostro patrimonio di tradizioni e di pensiero.

Carlo Cattaneo sostenne vigorosamente i principi della sua ipotesi federalista e auspicò le più ampie autonomie locali: la federazione, nel suo programma politico, era intesa come forma di unità, la sola in grado di garantire la libertà - conquista inalienabile a fianco dell'unità e dell'indipendenza - l'autogoverno, ma anche il mantenimento di quelle diversità storiche coesistenti in un popolo, feconde delle interrelazioni che si nutrono di un vitale pluralismo.

Ecco, dunque, che la maggioranza afferma di avere dato vita ad un sistema federale, accreditando di contenuti - esorbitanti la realtà stessa - le rivendicazioni degli uomini di Bossi, mentre l'opposizione chiama allarmata a difesa dell'integrità del Paese: l'audacia dei paradossi verbali maschera, come le foschie dello scirocco, le opposte ragioni. Allora, per un verso, il decentramento nella gestione dei poteri, una maggiore sussidiarietà, la necessità di una rappresentatività più adeguata delle regioni in Parlamento, non caratterizzano lo Stato come federale. Una accentuata impronta regionalista, sicuramente foriera di una gestione più agile della cosa pubblica, non inficia necessariamente la sovranità centrale ed il carattere istituzionale di una nazione che ha conquistato una propria unità etnico-linguistica e da questa proclamato la Repubblica. D'altro canto, quante e quali saranno in definitiva "le regole comuni" e quanto estese potranno essere le aliquote di potere assegnate, per materia, alle regioni a detrimento della decisionalità centrale? Possono l'interesse generale e l'unità ordinamentale sopravvivere all'inevitabile avvicendarsi delle maggioranze politiche ? La Costituzione è, per gli italiani, ciò che quella degli Stati Uniti è per gli americani o gli ‘immortali principi dell'89' per i francesi: mai una dinamica interpretativa deve tramutarsi in modifiche irreversibili di una identità e mai il semplice correre del tempo (peraltro brevissimo, se comparato a quello, appunto, delle costituzioni occidentali, e senza scomodare la Magna Charta) legittima interventi in sé manipolativi. Si vuol dire che migliorare l'esistente, aggiornarlo alle necessità storiche (o, più prosaicamente, a quelle economiche…) non significa sconfessare le pietre d'angolo di uno Stato, soprattutto la fisionomia di una cultura nazionale. La quale, se disintegrata a beneficio di incerte "tradizioni" locali, è come la pula dispersa nel vento: impossibile a ricomporsi, inutilmente, ingiustamente, irreparabilmente sciupata. Ecco perché i moniti dei vertici istituzionali (dapprima il Capo dello Stato, poi del Presidente della Consulta) di ricercare larghe intese e, soprattutto, di essere prudenti fino allo scrupolo prima di modificare irreversibilmente, non vanno accolti con l'arroganza di chi ritiene di essere "più avanti" nella storia e di poter fare a meno dei consigli dei saggi, ritenendo sufficiente la forza di un popolo che, alle spalle, tutto legittima ed autorizza. Il qualunquismo, il me ne frego, la tracotanza sono movenze estranee alla democrazia: la storia d'Italia, per esse, ha già pagato un prezzo altissimo. Ed invece - come diceva Hölderlin - "noi, gli uomini, siamo un dialogo".