Il pubblico, il privato, l'ambiente/Alla ricerca di una sinergia che si chiama partenariato

Un binomio mirato a conciliare esigenze diverse

"Il partenariato pubblico/privato al servizio delle politiche ambientali", relazione predisposta per il convegno "Le politiche ambientali di raccolta differenziata e riciclaggio: modelli di gestione, strumenti, esperienze di partenariato pubblico/privato", Roma, 4 ottobre 2005.

di Francesco Nucara

Nel "libro verde", presentato il 30 aprile 2004, la Commissione europea fornisce la migliore e più puntuale definizione di "partenariato pubblico-privato" (PPP): esso designa le "forme di cooperazione tra le autorità pubbliche e il mondo delle imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un'infrastruttura o la fornitura di un servizio". Sempre in ambito europeo, è poi nota la distinzione tra un partenariato di tipo esclusivamente "contrattuale" ed uno di carattere "istituzionale". Con il primo si designa, come testualmente recita il libro verde, un partenariato "basato esclusivamente su legami contrattuali tra i vari soggetti. Esso definisce vari tipi di operazioni, nei quali uno o più compiti più o meno ampi -tra cui la progettazione, il finanziamento, la realizzazione, il rinnovamento o lo sfruttamento di un lavoro o di un servizio- vengono affidati al partner privato". In tale nozione rientrano modelli assai noti alla tradizione giuridica occidentale, quali ad esempio il contratto di appalto o la concessione amministrativa. Ora se il fenomeno PPP dovesse limitarsi alla rilettura dei canoni contrattuali dell'appalto o della concessione, sia pure alla luce della normativa europea, potremmo manifestare la nostra delusione scettica affermando: "niente di nuovo sotto il sole".

In realtà, quando si parla di partenariato, lo si fa riferendosi, prevalentemente, a quello di tipo istituzionalizzato: è questa la figura, infatti, non soltanto foriera delle più originali novità teoriche, ma, soprattutto, degli esiti operativi più interessanti. Secondo la Commissione europea, i partenariati pubblico-privato di tipo istituzionalizzato implicano, infatti, una cooperazione tra il settore pubblico e il settore privato che genera un'entità distinta, idonea ad assicurare la fornitura di un'opera e di un servizio a favore del pubblico. Si tratta, in breve, di una sinergia dalla quale non nasce, come in passato, la prevalenza di una soggettività (pubblica o privata) rispetto all'altra, quanto la finalizzazione di una funzione (di una "missione", come ha scritto qualcuno). Il modello maggiormente adoperato a tale fine è quello della c.d. "società mista".

E' di tutta evidenza come in questa prospettiva, la scelta del partner privato sia, per la pubblica amministrazione, la prima e più importante delle strategie dell'intero progetto. La P.A. si muove con lo sfondo di principi (buon andamento, imparzialità: art. 97 Cost.) che governano il suo operato anche quando tratta, nella condizione di parità, con i privati. La scelta di costoro, dunque, benché preluda alla creazione di una società mista, su basi paritarie, non può prescindere, in ogni caso, da criteri di trasparenza, convenienza, parità di trattamento, imparzialità. Tutto ciò pone una prima difficoltà teorica: la scelta del partner privato è davvero espressione di una sorta di "libertà imprenditoriale" da riconoscersi in capo al versante pubblico di questo accordo o, piuttosto, la selezione si ispira anche ad altri criteri? Con un calembour ad effetto ci si potrebbe chiedere se il Pubblico (la Pubblica Amministrazione) si comporta davvero quale soggetto privato nella scelta del suo partenariato, dimenticando i vincoli derivanti dalla finalità del suo operato.

E' difficile, quanto imprescindibile, fornire una risposta puntuale a questa domanda.

Lo è ancor di più allorquando le società miste originano non già in ambiti locali della P.A. -dove la scelta del partner privato è spesso abbastanza mirata sul territorio e, per molti aspetti, condizionata da necessità localmente riconoscibili ed individuabili- ma sorgono nei settori di vertice della stessa P.A. Penso, ad esempio, ai partenariati che involgono direttamente uno o più Ministeri, in relazione ad attività che riguardano l'intero territorio nazionale. Ora, che la giurisprudenza del Consiglio di Stato, da più di un lustro, statuisca la necessità di ricorrere a procedure selettive per la scelta del partner privato da inserire nella "società mista" è, sicuramente, apprezzabile: lo è meno l'assenza di criteri certi per effettuare tale selezione in mancanza di una normativa univoca. Il rischio, insomma, è che si torni, anche per le società miste, ai criteri vaghi -e, spesso, assai poco edificanti- delle gare di appalto. Voglio dire che il legislatore si è dato un gran da fare per prevedere che, in una serie di ambiti importanti, il partner privato fosse scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica (nel caso in cui si tratti di costituire, ad esempio, le società miste per la gestione di servizi pubblici locali; per la riscossione dei tributi e di tutte le altre entrate degli enti locali; le società di trasformazione urbana, e così via). Ma tutto ciò non ha ancora prodotto, normativamente, criteri univoci per i contenuti di tale evidenza pubblica. In breve, mi pare che un primo e fondamentale quesito da porre sul tappeto sia così formulabile: il partenariato vive, nel versante pubblico, del liberalismo più sfrenato ovvero è mitigato, per l'importanza della posta in gioco, dalla oculata finalità pubblica, dunque dai fini di amministrazione, dunque dalla finalità sociale (che non coincide quasi mai con quella economica e di mercato) che ispira l'azione della P.A.?

Piccolo esperimento collettivo

Per capire quanto sia importante e strategico tale quesito, invito ad un piccolo esperimento collettivo: trasferire questo interrogativo ad una delle più famose ed impegnative esperienze di partenariato odierno, quello relativo alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina. E' superfluo aggiungere altro alla riflessione su questo esempio.

Peraltro, tale problema è reso ancor di più "drammatico" dalla circostanza che il modello di società mista previsto in sede europea, nel già citato "libro verde" non è esattamente coincidente con quello che ha prodotto la prassi (e la legislazione) italiana.

Nella prospettiva europea, il partner privato è un po' mortificato e quello pubblico alquanto ingigantito: il privato è, essenzialmente, un esecutore; l'amministrazione pubblica, un controllore. Ma tale prospettiva, se da un lato affievolisce le novità operative del partenariato, per altro aspetto esalta proprio quel momento selettivo di cui sopra si diceva: proprio perché esecutore, il partner privato (e proprio perché controllore quello pubblico) la scelta, oltre ad originare da procedure selettive, non può fondarsi "esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza", dovendosi anche "tenere conto delle caratteristiche della sua offerta (…) per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire" (§ 58 del "libro verde"). Insomma, una effettiva concorrenza qualitativa, che emerge anche nella previsione della durata limitata della società mista, coincidente "con la durata del contratto o della concessione", onde evitare una reiterazione che danneggia la concorrenza. Ciò vale ad evitare "rinnovi dell'incarico affidato a questa impresa senza che sia posta in essere una reale nuova messa in concorrenza" e, quindi, in definitiva, a stornare il pericolo di attribuire gli incarichi "per una durata illimitata" (§ 61).

Un messaggio molto prudente

Alla fine, il messaggio che ci viene dalla "costruzione europea" della società mista è assai prudente: nulla di troppo diverso dalla vecchia concessione (con venature che richiamano l'appalto); nulla che possa scalfire il principio della concorrenza (anche a scapito della progressiva acquisizione di un rapporto fiduciario che si sedimenta con il partner privato); nulla che possa compromettere una rigorosa scelta "trasparente". Ma tutto ciò è davvero possibile non soltanto per il Ponte di Messina (che è l'esempio limite) ma anche per i partenariati in materia di rifiuti?

Ora, se è vero che le società miste previste dall'ordinamento interno rispettano l'orientamento comunitario per ciò che attiene la necessità di scelta del socio privato mediante una procedura selettiva/concorrenziale, non altrettanto si può dire per le modalità di concreto espletamento delle attività da parte delle società miste. Nell'ambito nazionale, infatti, gli incarichi sono ad esse affidati direttamente e vengono da esse svolte direttamente, non già dai singoli soci: ma che la società, direttamente e con la propria organizzazione imprenditoriale, ponga in essere le attività per le quali è nato il partenariato, significa anche che lo Stato non è più solo controllore, ma co-gestore di tali attività. E, d'altra parte, proprio questo tipo di modello rende, per così dire, assai diafana la necessità di un limite temporale alla vita della società mista.

E torno al quesito appena posto: come interagisce questa struttura di partenariato con un oggetto assai "particolare", quale quello dei rifiuti?

Ci sono due norme che, nella bozza di decreto legislativo in attuazione della legge delega in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti contaminati, appaiono sintomatiche in proposito.

La prima è l'art. 27, il quale prevede uno schema tipo di contratto di servizio volto a regolare i rapporti tra le Autorità d'ambito ed i soggetti affidatari del servizio integrato per la raccolta e gestione dei rifiuti. Tale schema tipo prevede, in particolare, il regime giuridico prescelto per la gestione del servizio; l'obbligo del raggiungimento dell'equilibrio economico-finanziario della gestione; la durata dell'affidamento, comunque non inferiore a 15 anni; i criteri per definire il piano economico-finanziario per la gestione integrata del servizio; le modalità di controllo del corretto esercizio del servizio; i principi e le regole generali relativi alle attività ed alle tipologie di controllo in relazione ai livelli del servizio ed al corrispettivo; le modalità, i termini e le procedure per lo svolgimento del controllo e le caratteristiche delle strutture organizzative all'uopo preposte; gli obblighi di comunicazione e trasmissione di dati, informazioni e documenti del gestore e le relative sanzioni; e molto altro ancora.

C'è una via italiana

Ora, tale norma è sintomatica di una ulteriore "via italiana" al partenariato: che non si chiama così, ma contratto di servizi; che non comporta la creazione di una società mista, e, nondimeno, realizza una gestione che vede coinvolto il soggetto privato sotto il diretto controllo (ma di un controllo fattivo ed attivo) di quello pubblico. In breve: non è un organismo in house; non è una società mista; è un contratto di servizi, avente ad oggetto un affidamento di almeno quindici anni di una gestione integrata in materia di rifiuti, certamente inedito quanto ad ampiezza e pregnanza.

La seconda norma è contenuta nell'art. 30, il quale prevede, ai fini dell'attuazione dei principi e degli obiettivi stabiliti dal decreto sui rifiuti, che il Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, di concerto con il Ministro delle Attività Produttive, possa stipulare appositi accordi e contratti di programma con Enti pubblici o con le imprese maggiormente presenti sul mercato, con soggetti pubblici e privati o con le associazioni di categoria. Gli accordi ed i contratti di programma hanno ad oggetto, in particolare, l'attuazione di specifici piani di settore di riduzione, recupero e ottimizzazione dei flussi di rifiuti; la sperimentazione, la promozione, l'attuazione e lo sviluppo di processi produttivi e di tecnologie pulite idonei a prevenire o ridurre la produzione dei rifiuti e la loro pericolosità, e ad ottimizzare il recupero dei rifiuti stessi; lo sviluppo di innovazioni nei sistemi produttivi per favorire metodi di produzione di beni con impiego di materiali meno inquinanti e comunque riciclabili; la sperimentazione, la promozione e la produzione di beni progettati, confezionati e messi in commercio in modo da ridurre la quantità e la pericolosità dei rifiuti e i rischi di inquinamento; e molto altro ancora.

Una forma evoluta

Certo, si dirà che gli accordi ed i contratti di programma non sono le società miste e sono appena un abbozzo di partenariato. Ma nessuno si sognerebbe di negare che essi, probabilmente, costituiscono per molti aspetti, la forma evoluta della stessa nozione di partenariato. Stabilire "accordi di programma" con le imprese "maggiormente presenti sul mercato" al fine di ottimizzare i flussi di rifiuti o di attuare specifici piani di riduzione è un modo legislativamente elegante per attuare una forma -magari soft, magari "mascherata"- di coinvolgimento dell'imprenditoria privata nel settore della gestione dei rifiuti. Un accordo che è la prosecuzione, sotto altra forma, della istituzione di una società mista poiché, alla fine, il "socio" privato sarà l'esecutore di un programma ed il Ministero dell'Ambiente il controllore della esatta e puntuale esecuzione del programma.

Nel corso del 2004 gli investimenti avviati con partenariato pubblico privato -ci informa Paolo Emilio Signorini, direttore della Segreteria del Cipe, in un suo ottimo scritto- appaiono in ascesa sul totale degli appalti assegnati, mentre i dati riferiti agli avvisi di gara mostrano la prevalenza sia in valori assoluti sia di crescita dei settori "trasporti", "public utilities" e "sanità": i dati relativi al mercato del PPP in Italia, tuttavia, ci suggeriscono come sia ancora presto per dire se esista un modello di PPP particolarmente adatto alla realtà italiana. Il Cipe ha approvato opere per cinquantaquattro miliardi di euro, già coperte finanziariamente per circa 20 miliardi di cui oltre il dieci per cento con risorse private. Non solo: il novanta per cento delle risorse private finanzia opere con elevato ritorno tariffario realizzate attraverso Concessione Costruzione e Gestione nel settore "trasporti". Per contro, la realizzazione delle grandi infrastrutture senza significativo ritorno economico avviene tramite General contractor: ne sono un esempio l'autostrada Salerno-Reggio Calabria o la Catania-Siracusa o, ancora, il Ponte sullo Stretto. Una rapida disamina della collocazione delle grandi infrastrutture tra il mercato e il Patto di stabilità e crescita, mette in evidenza come molte siano le iniziative volte a valorizzare le risorse finanziarie e lo scrutinio del mercato nel finanziamento delle opere stesse (dall'ISPA al Patrimonio SpA, dal Piano economico finanziario per le opere finanziate dal CIPE al cofinanziamento privato per opere in settori con ritorno economico) perseguendo, al tempo stesso, l'esigenza di contenere la spesa pubblica ed assicurare la coesione territoriale. Come enunciato da Signorini, gli Accordi di programma quadro complessivamente stipulati sono 311 per un ammontare di investimenti - all'ultimo monitoraggio - pari a oltre 63 miliardi di euro di cui il 17 per cento con risorse private.

Concentrazione di risorse private nel Centro - Nord

Oltre il 75 per cento delle risorse private è concentrato nel Centro Nord, dove circa il 27 per cento degli investimenti è coperto da privati contro l'8 per cento del Sud.

Nei settori trasporti, acqua ed energia -tradizionalmente favorevoli allo sviluppo di PPP- è programmato oltre l'80 per cento del totale degli investimenti.

La concentrazione al Sud di gran parte delle risorse pubbliche aggiuntive non ha dunque fatto da traino all'afflusso di risorse private. Fanno eccezione i settori idrico e rifiuti dove l'assegnazione di risorse private è notevolmente superiore al Centro Nord ma gli investimenti tramite Concessione di Gestione tardano a partire. La concentrazione delle risorse private al Centro Nord è in gran parte dovuta ai fondi di Concessione Costruzione e Gestione, destinati al finanziamento di opere con significativi ricavi da tariffa.

Ed a questo punto, una seria riflessione concernente lo sviluppo del partenariato pubblico privato impone di chiedersi innanzitutto se la forte carenza di infrastrutture sia indice di terreno fertile per il partenariato stesso. Non sempre.

Definire gli standard

Per il PPP occorre definire contrattualmente standard di qualità sia nella costruzione della infrastruttura sia nella successiva erogazione del servizio: questo da un lato spiega i ritardi del PPP al Sud dove è più difficile contrattualizzare adeguati livelli di qualità -ad esempio- in termini di legalità. Sono in tal caso preferibili modelli di PPP che integrino tutte le fasi del ciclo di vita dell'investimento, riducendo le asimmetrie informative tra le varie attività. Altro pressante quesito da porsi concerne la possibilità che i vincoli di finanza pubblica ostacolino lo sviluppo del PPP: è sovente vero il contrario. In realtà, essi aiutano a introdurre metodi di analisi più rigorosi; accrescono la capacità di controllo delle Amministrazioni sui tempi e la qualità degli investimenti; avvicinano gli operatori del mercato (quali banche, investitori istituzionali, società di project management consulting) alle pubbliche amministrazioni.

In conclusione, quindi rimangono da identificare i punti suscettibili di miglioramento. Su cosa agire? Occorre assicurare maggiore supporto politico al PPP, come è avvenuto nel Regno Unito con la PFI; rafforzare le competenze professionali nelle amministrazioni pubbliche, soprattutto quelle regionali e locali sempre più responsabili della spesa per infrastrutture ed insistere, infine, nella ricerca di soluzioni istituzionali volte a favorire il trasferimento del rischio (nelle sue tre componenti construction, performance, demand ) alla parte privata della partnership senza aggirare il Patto di stabilità e crescita.

In breve, il binomio pubblico-privato pare ormai inscindibile e le sue concrete epifanie praticamente infinite. Con buona pace dei liberisti d'antan, i quali hanno vagheggiano una società, assai improbabile, in cui lo Stato è azzerato e che vive solo di onnipotenti privati; e per gli statalisti nostalgici, che pensano ancora allo Stato hegelianamente: un po' mamma, un po' Superman, in grado di assumere tutto nel suo potere di gestione, relegando i privati al ruolo di spettatori.

Il partenariato pubblico-privato fa giustizia di queste tenere ingenuità ideologiche.