Cultura televisiva allo sbando e controllo sociale/Alla ricerca di nuove modalità che non siano umilianti per il pubblico

Quando la salvezza si chiama qualità

E' preoccupante se il fenomeno televisivo di inizio stagione, come sostenuto da critici e addetti ai lavori, è il programma "La pupa ed il secchione".

Intendo partire dal successo di questo programma, che è un innegabile dato di fatto nel regno dello share, per riscoprire alcune pagine fondamentali a proposito della televisione e del pericolo che un suo cattivo uso può comportare per la tenuta della nostra società e della democrazia. La critica è rivolta, per usare le parole di Hans-Georg Gadamer, "ad un sistema che rischia…di trasformare la democrazia in oligarchia, espropriando il popolo della sua sovranità".

La televisione, secondo Gadamer, è la fine della spontaneità, del dialogo, del confronto; è la vittoria della passività, diremmo del de-pensiero; è la morte della libertà. "La tv è il contrario del dialogo, il contrario di una comunicazione reciproca. Uno solo parla a milioni che non dicono nulla; è un sistema da schiavi…la televisione è la catena da schiavi alla quale è legata l'odierna umanità…".

Lo schermo televisivo abitua a scene di violenza, il cui concetto va assunto in senso ampio e quindi non solo nel significato di violenza fisica; cioè, assistiamo ogni giorno a scene che violentano la caratteristica fondamentale che accende l'essere umano facendolo elevare e progredire: lo spirito critico. Infatti, la televisione addomestica le masse, addormenta la capacità di giudizio, il gusto, le idee: a spegnersi pian piano sono le motivazioni, la voglia di costruire reali esperienze, la spontaneità, la curiosità, tutti elementi che spingono l'agire umano verso le vette più alte e nobili. Si eclissa il sistema che ha retto il progresso umano fino a questo momento: il dialogo.

La comunicazione diventa unidirezionale. Davanti al televisore si è passivi ricettori e necessariamente si finisce per avere idee ed opinioni non nostre, per farsi condizionare nelle scelte, anche della quotidianità, per farsi guidare nei comportamenti e nei modi di essere: frasi come "questa cosa è giusta, lo hanno detto o fatto in tv" sono, ormai, di uso comune. A non svilupparsi è la nostra coscienza, la nostra mente si uniforma nelle passioni e nei desideri, e si uniforma passivamente.

A quale conclusione giungiamo?

Se il contrario della passività è la partecipazione, e se a morire è proprio la partecipazione e la voglia di fare, e se a trionfare è l'assuefazione, allora il rischio che si corre è che a morire sarà anche la Democrazia, la libertà.

Già Feuerbach aveva anticipato, nella sua prefazione all'Essenza del Cristianesimo, la preferenza che il nostro tempo accorda all'immagine rispetto alla cosa, alla copia rispetto all'originale; processo che realizza inevitabilmente la perfetta sintesi prodotta da Debord, il quale afferma che "nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso". L'iperrealismo, il kitsch, corrente scoperta dell'arte contemporanea, da Hopper in avanti, o più semplicemente la nozione di Pop, resa familiare da Warhol, sposta il confine dell'immagine e dell'immaginazione. Ma la televisione ci restituisce solo l'immagine che si sostituisce completamente all'immaginazione e plasma il nostro immaginario.

Certamente, dobbiamo riconoscere come la televisione sia stata una delle invenzioni di maggior successo e alla quale vanno attribuiti grandi meriti. La società civilizzata è frutto di educazione, il risultato di un vigile processo educativo che ha subito un'intrusione dirompente. La tv, del resto, esercita un tipo di educazione dal potenziale infinito. Va da sé, però, che se l'educazione è di scarsa qualità anche il popolo sarà di scarsa qualità, ed una tv senza qualità si trasforma, da grande strumento di diffusione della conoscenza, in quel boomerang negativo che si scaglia contro il vivere civile. Ed è allora che tutte le caratteristiche più deteriori del mezzo televisivo vengono a galla.

Quale soluzione prospettare? Cosa trasmettere? Concerti di musica classica a tutte le ore? Documentari a non finire? Telegiornali? Sobrietà? Rigore? Niente di tutto questo. Un metalmeccanico, un operaio, ma anche un avvocato o un semplice impiegato, al termine di una dura giornata di lavoro ha diritto a riposarsi, a "staccare". Ha diritto, se vuole, di accendere la tv e di trovare programmi di intrattenimento, che riescano a distrarlo, senza allontanarlo, dai problemi, dalle gioie e dai dolori di tutti i giorni. Quel che si pretende è la qualità. Perché tra leggerezza e superficialità a trionfare nei palinsesti della televisione è quasi sempre la seconda.

Anche la politica in questo è diventata maestra, preferendo la superficialità e la spettacolarizzazione, in luogo dell'analisi, del dialogo e del dibattito civile. E a rimetterci due volte è il popolo-spettatore ricettore passivo, indottrinato senza consapevolezza e conoscenza, ammaestrato ed istupidito, destinatario di scelte politiche non sempre brillanti.

Nell'era del trionfo dell'idiozia e dell'ignoranza quale stile di vita, della cura ossessiva del lato superficiale del proprio essere, nell'epoca in cui si emulano le gesta dei vari (e vani) mariadefilippini e simonaventurini, dei partecipanti di reality-irreality, degli stupidi scimmiottatori dei sentimenti umani più profondi, a metà strada tra fenomeni da baraccone e casi umani, forse sarebbe bene iniziare a pensare una soluzione partendo da alcune proposte come quella di Karl Popper: "una patente per chi lavora in televisione". Anche se ci si rende conto della difficoltà di stabilire in base a quali regole conferire queste "patenti". Lo spettacolo è rapporto sociale mediato dalle immagini, e non un mondo a sé.

Insomma, costruiamo un dibattito serio nel tentativo di compiere un'analisi e formulare una conseguente diagnosi che ci conduca ad avere una televisione di qualità, fatta da professionisti consapevoli delle potenzialità del loro operato e del ruolo che svolgono per la crescita di una società.

Osservava Debord, alla coscienza del desiderio e al desiderio di coscienza noi sostituiamo "il suo contrario, la società dello spettacolo, dove la merce contempla se stessa in un mondo da essa creato".

Se continua così, sarà ancora una volta l'inizio della nostra stessa decadenza.

Giovanni Postorino