"La Stampa" del 24 settembre 2003 "La Malfa legge Cossiga. E a sorpresa lo approva" Mondadori pubblica in questi giorni un saggio di Francesco Cossiga sulle vicende politiche degli ultimi dieci anni seguito da una raccolta delle principali interviste da lui concesse in questo periodo. (Francesco Cossiga, "Per carità di patria", a cura di Pasquale Chessa, Milano, 2003, 17 ). L'analisi dei vasti sconvolgimenti politici e dei grandi cambiamenti istituzionali occorsi in questi anni è di grande interesse, ma, insieme con questo, il libro rivela anche molto della complessa personalità dell'autore: la continuità di pensiero, quasi un filo conduttore sempre presente nelle sue iniziative e nei suoi giudizi, la tempestività dei suoi interventi, spesso il loro carattere provocatorio e, nello stesso tempo, la sua insofferenza per la situazione politica del Paese. La tesi centrale del saggio di Cossiga è che la crisi politico-istituzionale nella quale si dibatte ancora oggi l'Italia risale alla fine degli anni '80. In quel momento, venuto meno il vincolo costituito dalla situazione internazionale, i grandi partiti politici che avevano formato, dalla maggioranza o dall'opposizione, l'ossatura democratica della Repubblica nel dopoguerra, avrebbero dovuto promuovere quel rinnovamento delle istituzioni che si rivelava ormai come indispensabile e, per la prima volta, possibile. A giudizio di Cossiga, Craxi, ponendo sul tavolo il tema della Grande Riforma, fu, allora, quegli che meglio comprese questa necessità. Egli, tuttavia, mancò della determinazione necessaria e, di fronte alle resistenze della Dc, accantonò i suoi propositi piegandosi ad un accordo di basso profilo con Andreotti. La Dc, per sua parte, cercò di difendere le comode certezze del vecchio equilibrio politico, sforzandosi di mantenere il più a lungo possibile la rendita di posizione costituita dalla presenza del partito comunista. Il Pci, alle prese con la crisi del comunismo internazionale e minacciato dalla sfida di Craxi, pur dichiarando con il cambiamento del nome e del simbolo di volere mutare a fondo le proprie impostazioni, preferì chiudersi a riccio, coprendo la propria crisi con quella delle maggiori forze politiche aggredite dalla magistratura milanese. I tre partiti, a causa di questo ritardo, non furono in grado di fronteggiare, come avrebbero dovuto, l'offensiva giudiziaria. Con essi entrò in crisi l'intero sistema politico. Cossiga rivendica a sé il merito di avere visto per tempo questi pericoli e di avere operato dal Quirinale con tutte le proprie forze per richiamare l'attenzione su questi problemi e sulla loro indifferibilità: "Le ottantadue cartelle del mio "Messaggio alle Camere" del 26 giugno 1991 scrive Cossiga sono l'estremo tentativo di affrontare con gli strumenti della politica quel rinnovamento istituzionale e quell'adeguamento costituzionale indispensabili per far diventare l'Italia una democrazia "normale"" (pp. 11-12). Il libro rivela che l'originaria stesura del messaggio conteneva la proposta di affidare a un governo di unità nazionale, che comprendesse a pieno titolo il neonato PDS, la guida del Paese nella fase delle riforme. Ma questa parte dovette essere tagliata per il rifiuto di Andreotti, allora presidente del Consiglio, di controfirmarlo. Il dibattito parlamentare sul messaggio fu del tutto insufficiente: i maggiori partiti vollero sbarazzarsi della questione ed egli stesso rivela ora anticipò al 25 aprile 1992 le proprie dimissioni dalla Presidenza, considerando che la risposta che aveva ricevuto la sua iniziativa denunciava la debolezza, anzi la vera e propria crisi del sistema politico. Quella sembra dire Cossiga - fu la grande occasione perduta. Successivamente il campo fu aperto alle forze che premevano per la dissoluzione del quadro politico ed istituzionale della Repubblica, alla Lega dall'esterno, alle posizioni di Mario Segni all'interno, verso le quali Cossiga non nasconde la propria sostanziale antipatia. Cossiga fa parte dell'ampia schiera di coloro che ritengono necessaria e possibile per l'Italia l'adozione di uno schema di alternanza e sostiene che le riforme costituzionali dovrebbero favorire questa evoluzione. Nello stesso tempo, però, egli considera impensabile e pericolosa l'idea che una democrazia possa o debba fare a meno dei partiti. Da questo, i giudizi severi contro Segni e contro Prodi; l'iniziale simpatia politica per D'Alema per il coraggio nel sostenere che l'Ulivo non potesse essere altro che un'alleanza fra partiti e l'evidente delusione per la sua debolezza; il giudizio ambivalente su Berlusconi, capace di creare dal nulla un movimento politico effettivo, ma nello stesso tempo inadeguato al compito di guidare un paese come l'Italia fuori dalle sue difficoltà. Cossiga ritiene che la prova di appello del sistema dei partiti sia stata persa con il governo D'Alema che egli dichiara di aver favorito perché esso appariva come il modo di fronteggiare la confusione politica del Prodismo e di restituire ai partiti con i loro riferimenti di carattere europeo un ruolo centrale nella vita politica. Una volta fallito - per la reazione di Prodi, Veltroni ed altri - l'esperimento dell'alleanza fra il centro e la sinistra riformista, la strada è stata aperta alla vittoria di Berlusconi, ma anche al dilagare dell'idea di una politica senza partiti. Il saggio di Cossiga e le sue interviste non danno un giudizio circostanziato sul Governo Berlusconi e sulle sue prospettive: un giudizio storico sarebbe prematuro osserva Cossiga - e così anche un giudizio culturale; quanto a un giudizio politico, "esso sarebbe impietoso, dal momento che le difficoltà della politica e dell'economia internazionale ne hanno probabilmente deteriorato l'immagine e minato il consenso al di là dei suoi demeriti oggettivi" (pag. 97). Questa è per grande linee la trama della riflessione di Cossiga, il motivo della sua costante insoddisfazione e della ricerca in questi anni di una strada per consolidare le strutture politico-partitiche senza le quali il Paese è destinato ad oscillare senza tregua fra destra e sinistra. Egli sottolinea ripetutamente l'importanza essenziale per la politica italiana del collegamento europeo, ma deve constatare che dalla politica europea, essa stessa in condizioni di grave confusione, non è venuta e non sembra poter provenire all'Italia un ancoraggio sicuro. Si direbbe che il Senatore a Vita sia in questo momento in una fase di riflessione e che non veda una strada percorribile. Manca del resto, nel saggio che apre il volume, alcun accenno al futuro. Esso si chiude sui temi di politica estera con un richiamo al suo voto contrario all'azione militare anglo-americana in Iraq una decisione che appare in contrasto con le convinzioni di politica estera che hanno accompagnato da sempre l'azione politica di Francesco Cossiga. Riflettendo sulle motivazioni di questa scelta, viene fatto di pensare che forse è stata determinata dalla preoccupazione di evitare una lacerazione troppo profonda del tessuto politico interno del nostro Paese, quello che aveva consentito di affrontare i momenti più duri del dopoguerra, dalla guerra fredda al rapimento di Aldo Moro, facendo sempre e comunque salva la convivenza democratica. Un'osservazione conclusiva riguarda le prospettive politiche italiane. Non so se Cossiga sarebbe d'accordo con questa valutazione, ma, ad avviso di chi scrive, l'errore di questi anni è stato quello di voler perseguire in ogni caso la via del consolidamento del modello dell'alternanza. Vista la relativa debolezza delle forze riformiste nella vita politica italiana e la persistenza di forme di radicalismo politico e sociale, a destra come a sinistra, un modello di governo basato sull'esistenza di una forza politica centrale capace di escludere dal governo le ali estreme dello schieramento politico potrebbe servire il Paese oggi, così come lo ha servito nel corso del dopoguerra. Il modello dell'alternanza, dividendo in due il Paese, indebolisce soprattutto le forze politiche riformiste dell'uno e dell'altro schieramento e le assoggetta al ricatto delle componenti più radicali. Così come Berlusconi non può liberarsi della Lega, qualunque cosa essa dica o faccia, così domani Prodi non potrebbe far altro che riprodurre, con gli stessi risultati, lo schieramento comprendente Rifondazione Comunista che ha portato nella scorsa legislatura al fallimento del centrosinistra. Giorgio La Malfa |