Donne in agricoltura: osservatorio che rivela le problematiche femminili in un particolare ambito lavorativo/Intervento di Francesco Nucara tratto da un recente convegno organizzato a Roma: ne emerge la necessità di un ripensamento delle politiche del settore

Il management del gentil sesso si realizza soltanto nelle piccole imprese

Intervento del sottosegretario all'Ambiente Francesco Nucara presentato al convegno "L'Europagricola del terzo millennio ha bisogno delle donne", Roma, 24 settembre 2004.

di Francesco Nucara

Se non temessi di tracimare immediatamente dai limiti di tempo e di spazio propri di un saluto, comincerei con il contestare il titolo di questo convegno. Non è l' "Europagricola" ad avere bisogno delle donne in agricoltura, ma è l'Europa tout court -nella sua interezza di nuovo soggetto politico ed economico- ad avere bisogno delle donne. Tutta l'Europa, insomma, di tutte le donne.

Dico questo per veicolare una prima riflessione: le competenze femminili, l'impegno delle donne, i loro "stili di vita" conferiscono qualità alla vita sociale ed economica evadendo dalla logica dei settori, delle parcellizzazioni, della "schedatura" dei mestieri. L'Europa deve parlare al femminile non perché le "donne siano più adatte a...", secondo la logica delle partiture sociali di fine ottocento; ma perché quello femminile è il linguaggio del futuro: un po' come il basic lo è per l'informatica, l'inglese per la tecnologia, il tedesco per la grande poesia e letteratura.

Parlare al femminile significa sì tener conto di un dato quantitativo, ma soprattutto di un orizzonte qualitativo: ed è questo l'orizzonte che -credo- faccia da sfondo al nostro convegno.

Perché se solo i numeri fossero importanti e solo le quantità rilevanti, faremmo oggi torto alla fatica degli organizzatori ed alla importanza dei relatori: attualmente, infatti, il numero delle donne occupate in agricoltura non arriva alle 500.000 unità e, soprattutto, rappresenta poco più del 5 % del totale delle donne occupate.

Tanto rumore per nulla, dunque ?

E' vero esattamente il contrario. Il lavoro delle donne in agricoltura è infatti un microcosmo ideale, un laboratorio d'elezione per esaminare, per un verso, le problematiche del lavoro delle donne e, per altro verso, la peculiarità del lavoro agricolo.

Voglio dire che, scorrendo le statistiche, si scoprono dati di notevole interesse, oltremodo rivelatori. Leggiamo, ad esempio, che la donna occupata in agricoltura è mediamente di età elevata (42,3 anni); è più "coniugata" ed ha più figli delle altre donne occupate; vive in famiglie più numerose ma ha anche un grado di istruzione più basso delle donne occupate in altri settori. Soprattutto, la donna in agricoltura -parlo della lavoratrice indipendente- lavora di più delle sue colleghe: 65 ore (settimanali), tra lavoro extradomestico e familiare, contro una media di 59 ore negli altri settori, superiore anche alle medie del sesso forte.

Cosa esprimono questi dati?

A prima vista una condizione deteriore della donna lavoratrice in agricoltura rispetto a quella impiegata in altre categorie produttive. Il dato che funge da cartina al tornasole -quello dell'età media abbastanza alta- induce, ad esempio, a ritenere che l'occupazione in agricoltura invecchi (in presenza di un ricambio generazionale sempre più difficoltoso) con l'agricoltura medesima: a fronte di una età media di appena 36 anni delle donne nel settore dell'industria e di 38,3 anni dell'età media della donna in altri settori di attività.

Ma anche questo dato non va posto in relazione, a mio avviso, ad una specificità della condizione femminile: esso, piuttosto, segnala la necessità di ripensare le stesse politiche agricole a livello non solo nazionale, problema drammaticamente attuale e prioritario.

(Da uomo del Sud, non posso fare a meno di sottolineare come, a questo proposito, il Paese sia, ancora una volta, spaccato in due: l'imprenditoria agricola gestita dalla donna esiste solo nel Nord Italia, mentre al Sud la realtà è quella del lavoro dipendente, salariato. E' un problema economico prima ancora che "femminile".)

Dicevo, comunque, che, i dati esaminati, per quanto all'apparenza "negativi", risultano, ad un esame più approfondito, di segno esattamente contrario.

Ad esempio, rilevare che le lavoratrici indipendenti in agricoltura hanno -tra lavoro extradomestico e familiare- il picco più elevato di ore lavorative settimanali (quasi il doppio delle celebrate 35 ore della gauche francese) è sì, indubbiamente, un dato in sé negativo; ma lo è molto di meno considerando che esso esprime una sorta di compatibilità storica (confermata da tutti i dati statistici) tra ruolo familiare e ruolo professionale della donna.

Insomma, nel lavoro in agricoltura -dove innovazione e tradizione si alternano, fino a confondersi in maniera inestricabile- il dato precipuo della tradizione è proprio rappresentato da una figura femminile pienamente radicata nel ruolo familiare al quale non rinunzia (sono, abbiamo detto, le più "coniugate" e quelle con il maggior numero di figli), anche se viene riaffermata la vocazione professionale, a costo di sacrifici enormi. I dati statistici confermano come tale settore professionale offra, probabilmente, un ideale connubio di valori di tradizione e di prospettive di innovazione: è chiaro che il sacrificio sopportato dalle protagoniste di tale dinamico intreccio è inversamente proporzionale alla modernizzazione ed allo sviluppo dell'agricoltura stessa.

Ed è questa la focalizzazione perfetta del rapporto tra donna ed agricoltura.

I dati statistici dimostrano che l'occupazione in agricoltura al femminile non è vista più -semplicemente- come la perpetuazione di una tradizione (solo il 71 % delle donne che lavorano in agricoltura ha un genitore che lo fa o lo ha fatto, contro l'80% degli uomini lavoratori) o, peggio, come un ripiego occupazionale di scarso pregio (è sufficiente uno sguardo alle rilevazioni relative alla "percezione di soddisfazione" di tale occupazione da parte delle donne medesime). Come dire, quello in agricoltura non è un lavoro ereditato o un ripiego occupazionale, ma un lavoro scelto. Per passione, ma anche per "riconoscimento salariale"; per spirito imprenditoriale, certo, ma anche perché l'azienda agricola -la cui sede coincide sovente con la residenza familiare- consente di fondere impegni familiari e professionali.

E' chiaro che la scelta di tale occupazione esige, tuttavia, una necessaria sponda politica: precisamente, uno scudo delle politiche sociali, pronte ad incoraggiare la ricchezza -assai rara- di questa duplice scelta, familiare e professionale. Intendo dire che se fino ad oggi il peso dell'impegno dedicato all'agricoltura senza rinunzia alla famiglia (ed anzi sul presupposto di una localizzazione congiunta delle due attività) si è materializzato nelle 65 ore di lavoro settimanale, l'impegno della politica- opportunamente sollecitata da incontri di alto profilo quale il presente- deve essere altrettanto intenso. Occorre prendere atto che, a partire dagli anni '90, si è ormai completato il passaggio dalla terra all'impresa, che di terra vive; che, dunque, la femminilizzazione in agricoltura non vive più le agiografie e le icone delle mondine di Riso amaro, ma registra una vera strategia imprenditoriale delle donne, le cui aziende -come è stato scritto- palesano una redditività mediamente superiore a quelle a conduzione maschile "indipendentemente dalla dimensione aziendale e dal territorio ove esse sono localizzate: espressione, quindi, di una managerialità diffusa che porta le donne ad ottenere, per le proprie aziende, in genere, risultati economicamente validi".

Ma questa capacità, pure collaudata, non basta a creare sviluppo al femminile dell'agricoltura. Sempre i dati statistici degli ultimi decenni ci dicono, ad esempio, che mentre raddoppia, nel tempo, il numero delle piccole e medie aziende agricole (da 10 a 20 ettari) condotte da donne, nella dimensione superiore -e cioè per aziende superiori ai 20 ettari- si registra un fenomeno inverso. Le donne imprenditrici in agricoltura trovano difficoltà a profondere managerialità in imprese medio-grandi: non sfondano la "barriera"dei 20 ettari. Senza indulgere nella retorica, è evidente come le spiegazioni di tale fenomeno annoverino, senza dubbio, quella più ovvia: e cioè che le attività extraziendali, di tipo familiare -che nessun conduttore maschio, soprattutto a quel livello imprenditoriale, certamente effettua- continuano a costituire una limitazione per la grande imprenditoria femminile.

Questi pochi numeri disegnano, in conclusione, un quadro sufficientemente chiaro. L'impegno femminile in agricoltura, dopo la flessione dei primi anni novanta, si è trasformato in alacrità di management nell'impresa agricola di piccola-media dimensione. Ancora oggi, però, sembra inibito alla donna un ruolo di gestione aziendale di più vaste dimensioni; il ruolo imprenditoriale che la donna si è ritagliato è un sentiero tuttora impervio che difficilmente pare spianato dalle istituzioni o dalle politiche sociali, ma, quasi sempre, solo dal coraggio e dal sacrificio personale delle protagoniste. Eppure, gli stessi temi di questo nostro incontro di studio lasciano intravedere prospettive "al femminile" di enorme potenzialità imprenditoriale: immagino, ad esempio, il ruolo della donna imprenditrice in ambiti quali l'agricoltura biologica, l'agricoltura sostenibile sotto il profilo ambientale, la sperimentazione e la ricerca nello sviluppo delle aree rurali per l'efficienza funzionale del territorio.

Ma tutto ciò passa, in generale, attraverso nuovi sostegni rivolti dalla politica all'agricoltura ed, in particolare, attraverso una nuova sensibilità per ripensare alla salvaguardia delle intelligenze che in essa operano, in primo luogo le donne.

Alla fine, esse chiedono alla politica, ancora una volta, solo l'esiguità di un'attenzione: davvero poco, in cambio del tantissimo che dànno.