10 anni dalla scomparsa di Giovanni Spadolini Fu un grande interprete del moderatismo italiano di Piero Craveri Il "moderatismo" italiano, da come si costituì nell'Italia liberale, ha subito varie metamorfosi, quella fascista, poi quella democristiana, per finire in un crepuscolo, in cui ha perso quasi del tutto i lineamenti della sua identità, rimanendovi solo l'istinto ad evitare i rischi d'immotivati rivolgimenti. Queste metamorfosi hanno segnato storicamente un degrado costante e l'attuale condizione di stallo costituisce il segno evidente di una crisi italiana dai caratteri, a quanto sembra, irreversibili. Quello italiano, come tutti i moderatismi, è sempre stato uno "status", un essere senza voler essere, e la sintonia civile e politica si stabiliva infatti sul necessario dover essere. Così il moderatismo italiano ha avuto i suoi interpreti proprio nel definire questo "dover essere", giacché il divenire storico impone di adattarsi al cambiamento, secondo la ricetta moderata, il cambiare, cambiando il meno possibile. E questi interpreti gli hanno anche fornito sempre i necessari elementi identitari, civili, culturali e politici per dare un senso al suo "status" presente e futuro. Non si può pensare a Giovanni Spadolini , se non come a un grande interprete del moderatismo italiano. E prendere oggi atto che sono passati dieci anni dalla sua morte induce a riflettere, pensando all'universo di idee e sentimenti che egli rappresentava e sapeva far vivere sulla scena politica e civile, con la sua straordinaria vitalità e versatilità d'uomo colto, di scrittore, sempre misurato e insieme torrenziale, di politico accorto, conoscitore del giuoco, che sa navigarvi magistralmente al suo interno, mantenendo tuttavia sempre una distanza personale, come suggello appunto della sua personalità. Per tutte queste cose insieme sembrano oggi passati non dieci, ma cinquant'anni dalla sua scomparsa. Fenomeno storicamente singolare quello di Giovanni Spadolini. Veniva da una famiglia colta e benestante da cui portava il retaggio di quell'"umanesimo civile" che ne era stato lo humus naturale nel costituirsi dell'Italia unitaria. Vi rimase sempre fedele (ed a ciò era saldamente ancorato il suo laicismo) e gli toccò anzi di preservarlo nella sua integrità, così com'era, fuso nella sua persona, senza mutamenti e trasformazioni, che non quelle dell'approfondimento della sua esperienza culturale e politica. Non c'è travaglio, faticosa conquista di verità, almeno apparente dura prova civile e politica nella biografia di Giovanni Spadolini. Questa indissolubilità del suo nucleo originario derivò così anche a lui dalla straordinaria e non immeritata fortuna della sua vita, giovanissimo professore universitario, autore di buoni lavori storiografici, altrettanto giovane direttore di un quotidiano come il "Carlino", per passare di lì, dopo l'uscita di Missiroli, alla direzione del "Corriere", dove si impose per un quinquennio, tra i più travagliati della storia della Repubblica, per uscirne senatore e dopo poco ministro. Una progressione unica nel suo genere, perché davvero rari sono gli esempi di quelli che sanno fare di se esattamente quello che pensano di essere. Quando divenne presidente del consiglio, dopo 36 anni che quella carica era stata ricoperta da un democristiano, diede la misura che un laico poteva gestirla con un senso della responsabilità istituzionale e uno stile superiore, pur restando inalterata la continuità e la sostanza politica di quel modo di governare. Sapeva imprimere ai ruoli pubblici che assumeva un'impronta sempre realistica, ma più civile, di un'altra Italia, quella che portava con se e che era rimasta di pochi. Ugo La Malfa, per queste sue grandi qualità l'aveva voluto nel Partito repubblicano, di cui alla sua morte ne sarebbe divenuto il segretario. Da un lato il suo poteva dirsi un innesto naturale, nel partito che per eccellenza rappresentava il punto di sutura dell'equilibrio politico e che produceva in modo inequivoco e costante gli incontrovertibili indirizzi di governo per la tenuta e il progresso del Paese. Dall'altra la natura moderata dei suoi nuovi amici di partito era diversa, vuoi per l'ascendenza mazziniana, vuoi per quella azionista, essendo connotata non solo da un rigoroso dover essere, ma anche da un "voler essere", da un retaggio giacobino mai dimesso, come vuole il meglio, per quanto sempre minoritario, della tradizione moderata del nostro Paese. Nella crisi degli anni '80 nessuno come Giovanni Spadolini ebbe il senso dei pericoli imminenti e seppe mettere l'accento sulle cose indeclinabili che occorreva fare. Non cercò il filo di una nuova politica, ma rappresentò al meglio quella esistente. Era il riflesso costitutivo del suo peculiare moderatismo. E niente fu più drammatico della sua mancata elezione al presidenza del Senato e di lì a poco della sua morte. Fu il segno voluto ed emblematico di una rottura di continuità politica ed istituzionale, che si esprimeva nei confronti del livello più alto della precedente tradizione politica della Repubblica, quella appunto che Giovanni Spadolini allora rappresentava come nessun altro. Un segno di rottura che lasciò un vuoto profondo, mai da allora riempito. Un'esistenza segnata da due fasi fondamentali di Luigi Lotti Si possono individuare due fasi fondamentali nell'esistenza d Giovanni Spadolini. Una è quella che comincia attorno al 1948 con gli studi precoci sull'Italia risorgimentale e con le prime presenze giornalistiche e che si concretizza rapidamente per scelta di Giuseppe Maranini, che era rimasto colpito dagli scritti del giovane Spadolini, nell'incarico di insegnamento di Storia moderna II nella Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri". Era il 1950. Da quell'istante si sovrappongono la docenza universitaria e l'attività giornalistica, contemporaneamente avviata con continuità a Roma con la collaborazione a "Il Messaggero" e come notista politico al settimanale "Epoca". Cinque anni dopo diventò direttore de "Il Resto del Carlino" di Bologna, carica che tenne fino al ‘68, quando passò alla direzione del "Corriere della Sera" a Milano. Nel frattempo nel 1960 aveva vinto assieme a Aldo Garosci e a Gabriele De Rosa il concorso a cattedra di Storia contemporanea, il primo della nuova disciplina, finalmente inserita nell'ordinamento universitario italiano. Questa prima fase si conclude nel marzo del 1972, allorché la sua attività di direttore di quotidiani venne repentinamente e bruscamente interrotta dall'estromissione dalla direzione del "Corriere" ad opera della proprietà. Da quel momento amaro cominciarono invece le sue fortune politiche, la seconda fase della sua vita. Poiché si era alle soglie delle elezioni politiche anticipate del maggio successivo, gli si aprì subito la strada parlamentare, per iniziativa di Ugo La Malfa, che lo candidò al Senato a Milano. Per di più una strada che non si sarebbe fermata alla sola attività parlamentare, ma che anzi si sarebbe proiettata sul piano di governo, su quello partitico e infine su quello istituzionale. Sul piano di governo, essendo divenuto già nel ‘73 Ministro per i beni culturali ed ambientali (fondatore anzi, del Ministero cui avrebbe tenuto sempre moltissimo), e poi della Pubblica Istruzione; per divenire nel 1981-82 il primo Presidente del Consiglio non democristiano della Repubblica italiana, e successivamente Ministro della Difesa; sul piano politico-partitico per essere divenuto segretario del Pri dopo la morte di Ugo La Malfa; sul piano istituzionale dopo l'87 come Presidente del Senato, prima e dopo la sua nomina a Senatore a vita da parte del Presidente Cossiga. Sono due fasi diverse e precise. Sul piano degli studi, nella prima, sono prevalenti quelli di storia contemporanea ; nella seconda prevalgono le testimonianze personali, oppure la riconsiderazione di vicende passate o di uomini politici del passato, ma rivisti con una proiezione contemporaneistica più diretta. Fanno eccezione gli studi su Firenze: Spadolini assume formalmente la direzione della "Nuova Antologia", che riporta da Roma a Firenze, traendone forte ispirazione per un approfondimento della Firenze politica e culturale dell'800. Se le due fasi della sua vita sono così facilmente distinguibili, occorre però aggiungere che in Spadolini studi storici, attività pubblicistica, direzione di quotidiani e poi partecipazione politica sono state forme diverse di una vocazione culturale autentica, ma mai chiusa in sé stessa; più ancora gli studi storici hanno costituito il fondo problematico di conoscenza dell'Italia contemporanea da cui nasceva il contenuto delle altre attività. I suoi diciotto corsi attestano di questa proiezione: tutti diversi, sulla realtà italiana post-unitaria fino alla prima guerra mondiale. Solo in occasione degli anni centenari dell'unità, l'attenzione è stata volta alla ricostruzione del processo risorgimentale, fuori da ogni agiografia, comunque privilegiando un'analisi serrata e financo impietosa. Il primo corso Spadolini lo dedicò ai movimenti democratici di opposizione nel nuovo regno unitario. Ed era già indicativo dell'intento di ripercorrere la lotta politica interna dalle insufficienze della costruzione unitaria, dalle aspettative mancate di un'affermazione democratica congiunta all'unità, al manifestarsi al contrario dell'ostilità della Chiesa e di settori del laicato cattolico. Nel volgersi all'esame delle voci critiche degli esiti risorgimentali lo sospingeva l'assillo di marcarne i limiti ristretti e per mettere in risalto la difficoltà di un'attuazione nuova nella realtà europea, cui la partecipazione genuina dei ceti medi o dei ceti popolari cittadini non annullava l'estraneità delle masse di campagna: una attuazione che per di più dovette subito affrontare il contrasto lacerante e duraturo con la Santa Sede. Da qui l'attenzione portata per anni sui rapporti fra Stato e Chiesa, ma non nella loro configurazione giuridica, bensì nel loro drammatico impatto con la nuova realtà italiana. Da qui l'attenzione portata alla storia dei partiti, delle idee e dell'organizzazione politica, nella prospettiva di cogliere il faticoso e labile affermarsi della democrazia: storia delle forze politiche nella loro proiezione nazionale, ma anche del loro radicamento locale al fine di individuare l'eterogeneità e la complessità della realtà italiana; e storia del loro configurarsi nel Parlamento attraverso le elezioni, un altro filone di studi in quegli anni assolutamente ignorato. Dunque avvento della democrazia e nesso fra politica e società: questa l'ispirazione di fondo dei suoi studi sull'Italia dopo l'unità. Così come il consolidamento della democrazia nel quadro europeo è stata l'ispirazione di tutta la sua attività politica. Nuove istituzioni, nuovi soggetti politici di Antonio Maccanico A dieci anni dalla scomparsa di Giovanni Spadolini mi viene in mente un passo del suo ultimo discorso pronunciato al Senato il 17 maggio del '94 alla presentazione del 1° governo Berlusconi. Da pochi giorni per un solo voto aveva perduto la presidenza del Senato. "V'è soprattutto un elemento dal quale, forti della lunga esperienza parlamentare, noi vorremmo metterla in guardia con spirito di amicizia. Quello di ritenere che col suo governo cominci una nuova storia, che il nuovo si sovrapponga meccanicamente e insieme impetuosamente al vecchio, che tutto il vecchio sia da respingere e da abbandonare. E che il nuovo sia da esaltare in modo indiscriminato e acritico" Non era il lamento del "laudator temporis acti", né il riflesso di una sua personale delusione. Era l'ammonimento dello statista, che era anche storico e uomo di cultura, del grande giornalista, del conoscitore profondo della tormentata storia dell'Italia unita e della sofferta vicenda della nostra democrazia, della nostra Repubblica nata dal crollo del fascismo, e della difficile costruzione dell'Europa contemporanea. V'è una coerenza di fondo in tutta l'opera di Giovanni Spadolini: in quella di storico, di giornalista, di leader politico, di uomo di governo. La coerenza che, nella storia d'Italia, è propria delle figure eminenti di quella che De Sanctis aveva definito "la scuola democratica". Quel filone della nostra tradizione politica, democratica e liberale, che va da Mazzini e Cattaneo e si perpetua in Giovanni Amendola, Nitti, Gobetti, Salvemini, nel partito d'Azione, in Ugo La Malfa. Nel "Mondo" di Pannunzio. Su Gobetti Spadolini volle riunire tutti i suoi scritti in un volume intitolato "Gobetti: una eredità". Sarebbe tempo di una analisi molto accurata dei molteplici aspetti della complessa opera di Spadolini, e soprattutto dell'impegno che profuse, convinto come era della debolezza della nostra democrazia, nello sforzo di evitare il declino e la crisi della "cosiddetta prima Repubblica", della Repubblica dei partiti; innanzitutto con la sua lotta senza quartiere alla corruzione e alla illegalità. In ciò egli fu un degno continuatore dell'opera di Ugo La Malfa, e i suoi insegnamenti rimangono attuali ed integri più che mai. Il primo: col "decalogo istituzionale" del suo secondo governo indicò una serie di importanti ammodernamenti istituzionali per dare stabilità al sistema, ma nel quadro della più rigorosa difesa dei valori della Costituzione del '48. Quelle indicazioni sono ancora validissime. Il secondo: sosteneva la necessità di una collaborazione sempre più stretta tra democratici laici e cattolici democratici. Il massimo studioso dell'opposizione cattolica nello Stato unitario considerava vitale questa collaborazione per il futuro della Repubblica. Il terzo: non cessò mai di puntare con coraggio alla costruzione di quel "partito della democrazia" del quale considerava il Partito repubblicano una sorta di avanguardia o di prefigurazione.Vedeva cioè l'ammodernamento istituzionale non disgiunto dalla necessità di creare una soggettività politica nuova. Credo che nell'Italia confusa e smarrita dei nostri giorni ripercorrere il cammino politico di Spadolini e riflettere sulla sua esperienza, sui suoi studi, sulle sue indicazioni farebbe bene a tutti, in particolare ai giovani che hanno ormai non molti punti di riferimento e di ancoraggio. In dieci anni molte cose sono cambiate: sono cambiate le forze politiche, le strutture sociali, le mode culturali, le classi dirigenti, l'economia. Ma le esigenze di fondo di rinnovamento sono le stesse, i valori ai quali Giovanni Spadolini si ispirò rimangono validi e attuali. Quella "certa idea dell'Italia" che aveva in mente è ancora un traguardo da conseguire, per il quale vale la pena di impegnarsi e di lottare. Non inchiodatelo solo alla Prima Repubblica di Ugo Magri Rende un pessimo servizio alla memoria di Giovanni Spadolini chi lo inchioda alla Prima Repubblica. Certo, fu personaggio autorevole del suo tempo. E certo, la morte coincise quasi simbolicamente con l'irruzione nel Palazzo di movimenti e partiti del tutto estranei al paesaggio precedente. Restano negli occhi quelle immagini drammatiche del giugno ‘94, l'elezione per la presidenza del Senato: Spadolini, sguardo quasi incredulo, che legge sul tabellone luminoso la propria sconfitta per un solo voto contro il candidato berlusconiano, Carlo Scognamiglio. E la famosa mano in tasca tenuta dal neo-presidente durante il discorso d'investitura, che segnò uno stacco, quasi fisico, rispetto al culto delle forme e delle regole di cui il suo predecessore era stato esemplare custode. Forte è dunque la tentazione di contrapporre Spadolini al cosiddetto "nuovo" che irrompeva in forme tumultuose e spesso scomposte. Qualcuno, profittando del decennale, si spinge addirittura a farne una sorta di martire dell'anti-berlusconismo. Ma si tratta di una caricatura. In cui di vero c'è soltanto che quel "nuovo" rappresentato dal Cavaliere ebbe l'arroganza mista a presunzione di liquidare come "vecchio" tutto quanto evocava equilibrio, saggezza, senso della misura. Chi conosceva Spadolini e sa come andarono le cose può testimoniare che non fu lui a ripudiare la Seconda Repubblica; fu questa che, con scarsa lungimiranza, pensò di farne a meno. "Incredibile come questi si siano sbarazzati in fretta perfino del suo ricordo", si rammaricava in privato Gianni Agnelli. Visti i risultati, difficile dar torto all'Avvocato.In realtà, Spadolini sarebbe stato protagonista pure ai giorni nostri. Altro che grande dinosauro estinto in ere geologiche remote: non fosse stato minato dalla malattia, oggi ne parleremmo come di un "grande vecchio", riserva perenne della Repubblica, non ha importanza se Prima, Seconda o Terza. Intellettuale autentico, storico illustre, giornalista di razza, interpretava una politica senza tempo, capace di sopravvivere al trapasso dei regimi, figuriamoci all'avvicendarsi degli schieramenti. Conservatore agilissimo, prudentissimo innovatore. Radicato nella tradizione liberale, giolittiano per vocazione, subiva tuttavia il fascino dei personaggi che dominavano i parlamenti o addirittura ne facevano a meno: Napoleone Bonaparte, Garibaldi, il generale de Gaulle... Rispettoso della centralità democristiana però non rassegnato. Primo presidente del Consiglio laico, accarezzò il sogno di una "terza forza" che in lui sgorgava da una cultura orgogliosa. Impossibile classificarlo. Capace di essere se stesso a sinistra così come a destra. Da ammirare nelle sue intuizioni. Da rispettare nelle sue molte contraddizioni. Evitando sempre di farne un'icona, di congedarlo con un busto al Pincio, di imbalsamarlo per esigenze di lotta politica tra i padri di una patria sempre più lontana dalle sensibilità di oggi. Autoritario, irascibile, umano, sensibile di Oscar Mammì Conobbi Giovanni Spadolini nel 1972, dopo la sua elezione a Senatore nel collegio di Milano offertogli da Ugo La Malfa. Cenammo insieme, a Roma, in un ristorante del Centro; ottima forchetta e splendida conversazione. Lo interessavano la prassi e i costumi parlamentari, si apprestava al nuovo compito politico con l'entusiasmo di un adolescente. Con una battuta scherzosa ed ammirata ebbi a dire di lui a un amico: "Uomo di non comune vanità, ma può permettersela tutta!" Eravamo ancora nella fase della democrazia dei partiti, dopo quella dei notabili, precedente la legge elettorale dell' 11 e il fascismo; prima di quella dei personaggi, che stiamo tristemente attraversando. Ugo la Malfa, Randolfo Pacciardi, Oronzo Reale; Bruno Visentini, Giovanni Spadolini, tutti grandi personalità, ma nessuno di loro era o si considerava "il Partito" e nessuno di loro aveva bisogno di essere telegenico. Primo Presidente del Consiglio laico nell' 81, fu un ottimo Presidente e, come testimonia il successo elettorale del Partito nell' 82, i cittadini l'avvertirono. Aveva un carattere autoritario, non poteva essere altrimenti, anche irascibile, ma dotato di grande umanità e sensibilità. Ministro per i rapporti con il Parlamento in un successivo Governo Craxi, mi trovai in disaccordo con lui Ministro della Difesa, ben più autorevole, su una questione di una certa rilevanza. Evitai di manifestarlo durante la riunione del Consiglio, ma gli telefonai subito dopo. Ne discutemmo, lui sempre più deciso, io sempre più caparbio. La discussione si fece polemica e accesa. A un certo punto, Giovanni, che era stato fin troppo condiscendente, attaccò il telefono e interruppe la conversazione. Cominciai a scrivergli una lettera, ma, non era passato un quarto d'ora, mi avvertirono che il Presidente Spadolini era di nuovo al telefono. Ricominciò ad argomentare, pacatamente, come se fino ad allora avessimo parlato d'altro. Non finii col dargli ragione, ma quasi. Aveva comunque vinto lui! Anche in viaggio gli esami non finivano mai di Damiano Nocilla Nel corso dei frequenti viaggi all'estero, quale Presidente del Senato, Spadolini svelava appieno a quanti come me avessero la ventura di accompagnarlo, quel suo carattere ad un tempo bonario ed impaziente, allegro e solenne, egocentrico e generoso. Ma soprattutto si poteva avere l'occasione di osservare da vicino il suo modo di lavorare, traendone preziosi insegnamenti. Lo storico, il professore universitario, l'uomo di cultura si rivelavano in tutte le fasi in cui si articolava la missione. Innanzitutto nella sua preparazione. Era stupefacente vedere con quanta puntigliosità si dedicasse a ripercorrere la storia dei Paesi che si accingeva a visitare: la storia sociale, la storia politica, la storia delle relazioni internazionali. Ed amava che i suoi collaboratori preparassero adeguatamente il loro viaggio, non mancando di confrontare le proprie opinioni con le loro, in un dialogo rapido e serrato che – e qui vi è un aspetto assolutamente peculiare dell'uomo! – poteva anche avere il sapore di un indulgente esame universitario. Certo non trascurava d'informarsi sullo stato attuale delle relazioni tra i due Paesi, sui punti di attrito, sulle questioni risolte ed irrisolte, su come il Governo intendesse affrontare i nodi problematici. Ma non si lasciava condizionare da quelle prudenze – talora eccessive – che sono imposte dai rapporti diplomatici. Direi, anzi, che era animato da un'intima curiosità di conoscere le questioni più difficili, le realtà più lontane da quella degli Stati di democrazia occidentale, le situazioni dove le tensioni si facevano più acute. Tuttavia, le caratteristiche umane e culturali di Spadolini e la sua istintiva vocazione politica si manifestavano nella fase centrale di svolgimento del viaggio. Qui non si preoccupava di intessere una rete di relazioni umane. Non era uomo per il quale la politica si risolvesse in una pacca sulla spalla dell'interlocutore. I rapporti interpersonali sarebbero nati solo se fondati su una precisa consonanza ideale e culturale, su una stima reale e profonda, che l'interlocutore avesse saputo suscitare in lui.E neanche mai si preoccupava dei rapporti economici e di affari. Tutto il viaggio era indirizzato, per un verso, a comprendere il popolo con il quale si accingeva ad incontrarsi: la sua vita culturale, religiosa, economica, politica; a conoscere quanto la classe dirigente di quel popolo ne rispecchiasse effettivamente le aspirazioni, gli interessi, gli ideali. Di qui un frenetico accavallarsi di incontri politici, di contatti con le istituzioni culturali, di rapporti con gli uomini più rappresentativi della cultura di quel Paese. Non si concedeva sosta, non un attimo di riposo o di relax. E di qui ancora l'interesse estremo, per un altro verso, nei riguardi dei rapporti culturali fra i due popoli, per l'attività dei nostri Istituti di cultura, per come il nostro Paese si presentasse all'esterno, per come esso sapesse suscitare la curiosità del mondo culturale del Paese ospitante. Era profondamente convito che i rapporti culturali fanno da sostegno indispensabile a quelli economici e politici e che i rapporti economici e politici, che non siano capaci di trasformarsi in una reale vicinanza di popoli fra loro o di suscitare correnti di reale simpatia fra di essi, rischiano di essere costruiti sulla sabbia. Si preoccupava moltissimo del fatto che l'Italia non avesse mai intrapreso una sistematica politica per una capillare diffusione della nostra lingua all'estero, da lui considerata essenziale veicolo perché l'Italia potesse far valere la propria presenza sullo scacchiere internazionale. La sua politica estera aveva, sotto questo profilo, una profonda aspirazione etica. Con pervicacia volle incontrare Lech Walesa nel corso di un viaggio ufficiale in Polonia, prima ancora che si aprisse la famosa tavola rotonda e mentre lì si viveva sotto il regime comunista. Fu un incontro trionfale, anche se guardato con dispetto e sospetto da parte del regime che ci ospitava. E non sempre era tenero nei riguardi degli uomini politici con i quali aveva occasione di dialogare. Lui, che pur notoriamente simpatizzava per Israele ed era sempre pronto a difenderne le ragioni, non mancò di dar sulla voce durante un incontro con esponenti della Knesset, ad un autorevole parlamentare israeliano che si era lasciato andare a giudizi poco accettabili nei riguardi del popolo palestinese. Gli era congeniale viaggiare come Presidente di un'Assemblea parlamentare, perché era consapevole che i rapporti interparlamentari sviluppano, meglio di quelli intergovernativi, la reciproca comprensione fra i popoli: e ciò rispondeva alla sua visione della politica estera, nella quale l'ideale di trasparenza giocava un ruolo fondamentale. Vi era, poi, la terza fase, quella in cui si dovevano trarre i frutti dal viaggio compiuto, informando gli esponenti di spicco della vita pubblica italiana delle impressioni raccolte, delle richieste provenienti dagli interlocutori, delle iniziative da intraprendere. Spadolini vi aggiungeva, con una regolarità ed una rapidità che erano pari alla sua instancabile capacità di lavoro, la raccolta sistematica delle conoscenze raccolte durante il viaggio, delle emozioni che eventi, luoghi o persone gli avevano suscitato, delle suggestioni che gli erano venute: l'articolo destinato a "La Stampa", le più ampie considerazioni che sarebbero apparse sulla "Nuova Antologia", il Diario personale venivano da questo singolare momento, in cui metteva a frutto quanto gli aveva procurato la sua ansia di conoscere. Quel desiderio di conoscere che lo portava istintivamente talora a sottoporre i propri interlocutori ad un vero e proprio terzo grado. Ho ancora vivo il ricordo di un viaggio a Strasburgo, nel corso del quale ebbe occasione di incontrare a pranzo Pflimlin, l'ultimo Presidente del Consiglio della IV Repubblica francese. Spadolini ardeva dal desiderio di sapere cosa si fossero detti lui e De Grulle, nel corso di un colloquio che spianò a quest'ultimo la strada verso il potere e dal quale l'ultimo Capo del Governo della IV Repubblica uscì Ministro del 1° Governo della V. Ma l'anziano uomo politico resistette fino alla fine nel riserbo assoluto, che aveva mantenuto per tanti anni. Non dimenticherò mai la delusione, quasi fanciullesca, negli occhi di Spadolini, mentre ormai cercava, sorridendo, di sganciarsi da un colloquio che per lui era divenuto senza scopo. |