10 anni dalla scomparsa di Giovanni Spadolini

Questo nostro doveroso tributo

di Francesco Nucara

Nel decennale della scomparsa di Giovanni Spadolini, "La Voce Repubblicana", di cui egli fu direttore carismatico (si pensi ai tanti giornalisti che questo giornale "formò" e che oggi ricoprono importanti incarichi nelle migliori testate italiane), intende rendergli uno speciale tributo. Abbiamo voluto onorarlo, con i nostri modesti mezzi, grazie al contributo di tante firme prestigiose che oggi lo ricordano con noi. Tra di essi collaboratori personali, amici repubblicani di un tempo e di oggi, conoscenti, politici di altri partiti che lo hanno frequentato, storici e giornalisti. Immaginiamo il sorriso orgoglioso che ci regalerebbe oggi Spadolini di fronte a tanta attenzione.

Alcuni dei suoi amici più cari non ci sono più, ma a noi piace citarne uno su tutti: Indro Montanelli. Quando nell'estate del 1994 morì il suo amico Giovanni Spadolini, Montanelli volle salutarlo con una memorabile prima pagina de "La Voce": Spadolini, monumentale e sereno come al solito, sale una scala fatta di libri che lo conduce fino al cielo. Nel titolo di questa pagina un augurio: "Buon Viaggio Professore!"

Nella monumentalità e nella serenità di quell'affettuoso ritratto è sintetizzata l'essenza dell'uomo politico, dello storico, del Professore Spadolini.

Spadolini monumentale nel fisico e nella sostanza: la sua storia coincide interamente con la storia della Repubblica italiana fino agli anni che di quella Repubblica rappresentano il naufragio irreversibile.

Giovanni Spadolini amava definirsi un "giornalista prestato alla politica". Non vi è forse definizione migliore, se intesa secondo la concezione di giornalismo che era quella di Spadolini: un giornalismo fondato sulla cultura, sulla conoscenza delle realtà affrontate, sulla coerenza e sulla continua ricerca della corretta interpretazione di uno scenario infinitamente arduo da comprendere: l'Italia.

Un singolare percorso di vita portò Spadolini a ricoprire i ruoli e le professioni più varie: professore universitario, direttore di quotidiani prestigiosi come "Il Resto del Carlino" e il "Corriere della Sera", senatore, segretario di partito, più volte ministro, due volte Presidente del Consiglio, Presidente del Senato.

Nella varietà delle sue esperienze si riflette la sua personalità complessa, ricca e spesso di non facile lettura, tant'è che sono molti coloro che non riuscirono ad apprezzare a pieno il suo inestimabile valore umano e politico. Quando Spadolini se ne andò, vittima di un male incurabile, era il momento della trasformazione, l'apertura di una nuova pagina politica del Paese: Berlusconi diveniva per la prima volta Presidente del Consiglio. Un contesto politico radicalmente diverso da quello a cui Spadolini aveva dato il suo prezioso contributo, e che si ritrovava ad osservare con crescente e comprensibile perplessità. Si stava allontanando ormai del tutto quella concezione dell'Italia che egli aveva elaborato, perseguito, difeso e teorizzato nell'arco della sua intensa e molteplice attività. Un'Italia che, a distanza di dieci anni dalla sua tragica scomparsa, possiamo dire che Spadolini rappresentasse in pieno. Un'Italia nella quale convivevano realtà molto diverse, che la politica - poiché questo era il suo compito - doveva cercare di conciliare, armonizzare, anziché sclerotizzare. Questa armonizzazione cui la politica doveva tendere secondo uno spirito solidaristico che è alla base del pensiero repubblicano, doveva essere tuttavia perseguita nel rispetto e nella salvaguardia di tutti i partiti. La prospettiva che si apriva nel 1994, quella di un inedito bipolarismo, lasciava Spadolini dubbioso e scettico. La sua era l'"Italia della ragione", ovvero l'Italia del dissenso e del dubbio laico, contrapposta all'Italia delle compiute maggioranze, del compromesso e della rinuncia.

Perseguire un tale ideale politico richiede raffinatezza, senso della storia e delle istituzioni, l'acume di chi è capace di far proprie e di coniugare le lezioni più disparate: Giolitti, Nenni, Mazzini, Croce, La Malfa, ma anche Gobetti, Moro, Cattaneo, De Gasperi, Sturzo.

Spadolini riteneva l'Italia un Paese estremamente fragile e a perpetuo rischio di rottura. L'obiettivo della politica in un Paese come il nostro doveva pertanto essere quello di arginare continuamente il pericolo di fratture irrimediabili: per questo non amava il nascente bipolarismo e avversava l'ipotesi di un futuro federale dello Stato. La forza delle idee doveva essere per Spadolini il nutrimento vitale della politica, affinché quest'ultima non si riducesse ad essere un mero esercizio del potere. Egli dimostrò infatti che per fare politica non ci vogliono solo i "professionisti della politica", ma anche uomini capaci di rendere la cultura un elemento integrante dell'esperienza politica.

La passione di Spadolini - uomo d'intelligenza vivace, che alimentava con numerose letture e accompagnava con una memoria di ferro - era soprattutto scrivere. Dapprima con i suoi articoli e in seguito con i libri che scrisse, Spadolini dimostrò come la storia e la storiografia possono - e devono - vivere nel quotidiano. Ricordo perfettamente la sua gigantesca calligrafia, metafora forse del suo pensiero "grande". Conservo ancora un foglio su cui campeggiano enormi tre parole: "Grazie, caro Francesco". Le scrisse quando gli regalai una copia de "La Storia dei Musulmani in Sicilia", con l'entusiasmo e la riconoscenza di chi è alla costante ricerca del sapere.

A chi non lo amò, o non seppe apprezzarlo, considerandolo un "usurpatore", vorrei ricordare che Spadolini non solo portò avanti con grande dignità la sua carica di successore di Ugo La Malfa alla segreteria del Partito Repubblicano, ma raggiunse traguardi impensabili, portando il Pri al massimo storico nel 1983, anno in cui conseguì il 5,1% dei consensi.

È vero che l'elezione di Spadolini segretario del Pri incontrò qualche resistenza. Tuttavia, egli fece di tutto per farsi accettare nel miglior modo possibile da quei repubblicani, poco laici per la verità, interessati più al pedigree personale che alla forza della ragione.

Ricordo quando a Reggio Calabria lo invitai a rendere visita a Gaetano Sardiello, ex deputato repubblicano alla Costituente, allora ultranovantenne. Spadolini aveva molti impegni e doveva partire con una certa urgenza per Messina, dunque andammo da Gaetano Sardiello con l'idea di fermarci solo qualche minuto. Spadolini conversò per più di un'ora con l'anziano repubblicano. Quest'ultimo citava a memoria tutte le pubblicazioni di Spadolini, che esibiva in bella mostra sugli scaffali della sua libreria. Era l'epoca della questione libanese, e il vecchio Sardiello prese a recitare Carducci: "Libano, dai bei cedri in fiore…"

Quando andammo via Spadolini, con gli occhi lucidi per la commozione, mi disse: "Questi sono i repubblicani da scoprire e da amare, frequentateli con devozione, avrete molto da imparare".

Tradizione risorgimentale e alto profilo etico

di Giorgio La Malfa

E' probabile che Giovanni Spadolini avesse immaginato, fin dai primi passi nel mondo degli studi storici e del giornalismo, un suo futuro impegno politico. L'ambito delle sue ricerche storiche ­ l'Italia dopo l'unità e la crisi dello stato liberale che condusse al fascismo e i contenuti dei suoi interventi giornalistici ­ mostravano con chiarezza la sua vicinanza a un diretto impegno politico. E tuttavia, il suo ingresso in politica apparve un evento casuale: quando nel 1972, nell'imminenza delle elezioni, i proprietari del "Corriere", alla ricerca di una linea editoriale più consona a quelli che allora apparivano i tempi, improvvisamente lo sostituirono, egli accettò ­ penso anche per influenza di Indro Montanelli ­ una candidatura senatoriale offertagli dal Pri.

Inizialmente egli dovette pensare di restare indipendente, ma ben presto decise, con la rapidità con la quale egli assumeva le sue decisioni e dava loro seguito, di entrare a fare parte del partito. Poi, alla morte di mio padre, egli accettò la richiesta pressante di assumerne la segreteria.

Egli ovviamente non veniva dalla tradizione intransigente del Partito repubblicano risorgimentale e post risorgimentale al quale aveva dedicato molti lavori storici, né da quella del Partito d'azione che sulla tradizione repubblicana risorgimentale si era innestata a partire dal 1946 e sempre più l'aveva caratterizzata nel tempo. Spadolini era e si sentiva un diretto discendente del giolittismo, cioè di una tradizione di apertura sociale e di moderazione politica, di rispetto dei valori nazionali e di equilibrio istituzionale. Riconosceva inoltre, rifiutando ogni pregiudizio laico, l'importanza della tradizione cattolico - democratica e auspicava un incontro fra i laici e i socialisti riformisti e fra questi e i cattolici. Pur comprendendo bene ambedue queste posizioni, quella cattolico - democratica e quella socialista riformista, per cultura ed ispirazione non poteva fare parte né dell'una, né dell'altra.

L'inserimento di Spadolini nel Pri non fu affatto facile, come invece si rivelò a posteriori, né per lui che alle due fonti di ispirazione del repubblicanesimo degli anni Sessanta e Settanta - la tradizione mazziniana e quella azionista - si sentiva almeno in parte estraneo, né per i repubblicani, ormai abituati all'aspro radicalismo ed alla quasi programmatica ricerca di posizioni minoritarie che era propria della leadership di Ugo La Malfa. E tuttavia, scomparso La Malfa, Spadolini era per il partito, che aveva bisogno comunque di una guida di alto profilo culturale, la sola speranza di continuazione in un ruolo politico sempre minacciato dalla modestia dei risultati elettorali. Poteva apparire, alla scomparsa di Ugo La Malfa, che per il partito vi fosse una possibile diversa guida nella persona di Bruno Visentini. Questa poteva in un certo senso apparire come una scelta più in linea con la tradizione lamalfiana. E tuttavia Visentini non aveva la stessa passione politica di Spadolini, né la disponibilità ad un impegno severo e massacrante come quello della guida di un partito e forse comprendeva egli stesso di non avere la passione necessaria per la guida di un partito come il Pri. Fu in fondo lo stesso Visentini a favorire l'ascesa di Spadolini alla segreteria, pur conservando la presidenza del partito che egli interpretò con un certo spirito dialettico rispetto al segretario.

Il bilancio della azione di Spadolini come segretario del Pri non è stato mai tracciato fino in fondo. Politicamente egli procedette ad una correzione di rotta, con garbo e senza polemiche, rispetto a una delle direttrici di fondo della politica repubblicana dell'ultimo La Malfa: Spadolini chiuse o preferì attenuare la rottura con il Partito socialista di Craxi e attenuò, senza però farla venire meno del tutto, l'apertura di credito che Ugo La Malfa aveva fatto, anche se dichiarandosene assai deluso alla fine della sua vita, verso il Pci di Enrico Berlinguer. Fu proprio la correzione di rotta verso il Psi, che probabilmente Spadolini effettuò rendendosi conto della drammatica crisi nella quale la morte di Aldo Moro aveva fatto piombare la Dc, che consentì a lui ed al Pri il successo principale, la guida del primo governo non democristiano del dopoguerra e il successivo trionfo elettorale delle elezioni politiche del 1983. E tuttavia quella scelta ricondusse il Pri nell'ambito di quel centro - sinistra che era morto alla fine degli anni ‘60 e che forse non era più in grado, come non è stato in grado, di dare all'Italia una guida adeguata. Probabilmente la crisi della Dc era tropo grave e tropo avanzata per consentire una qualche forma di ripresa della sua leadership, anche se mediata dalla guida dei governo affidata ora ai repubblicani ora ai socialisti. Probabilmente, la qualità del Partito socialista era troppo scadente per reggere l'ambizioso obiettivo di contrapporsi contemporaneamente alla Dc ed al Pci. Spadolini fece però anche qualcosa di molto importante e fu quello di valorizzare la tradizione laica del nostro Paese e di ­ sostanzialmente - farla coincidere con il senso delle istituzioni. L'immagine di pulizia che egli sapeva dare sembrava provenire direttamente dalle pagine più alte del Risorgimento e la stessa retorica della Nazione, che oggi è divenuta patrimonio dell'intero sistema politico, rappresentò un magistero di cui allora non si riconobbe tutta l'importanza, ma di cui si colgono oggi i frutti migliori.

Non è solo difficile, ma è soprattutto futile pretendere di immaginare quale sarebbe il ruolo e quali i giudizi di un uomo politico scomparso in una situazione politica nuova e diversa. Dove sarebbe, cosa farebbe, con chi collaborerebbe Giovanni Spadolini oggi non si può sapere, né vale la pena di chiedersi. Certo egli noterebbe una caduta del tono istituzionale del Paese, una cesura dolorosa dei valori istituzionali che per un uomo della sua passione civile risorgimentale sarebbe assai dolorosa.

Per i repubblicani la perdita di Giovanni Spadolini è stata grave e dolorosa, ma la sua lezione è ancora presente a tutti noi.

 

Sarebbe stato qualcuno anche senza la politica

di Giulio Andreotti

Giovanni Spadolini, a differenza di molti di noi, sarebbe stato qualcuno anche se non avesse avuto incarichi politici. Studioso di storia del Risorgimento; giornalista di spicco alla guida del "Resto del Carlino" e poi del "Corriere della Sera"; direttore della prestigiosa "Nuova Antologia": tutti risvolti di una vita intellettuale prestigiosissima.

Ma anche la sua attività politica si caratterizzò con un taglio culturalmente molto marcato. E per lui fu fatto quello che per altri sarebbe stato impensabile; e cioè la creazione per decreto legge del Ministero dei Beni Culturali. Nei dicasteri tradizionali, del resto (Pubblica Istruzione e Difesa), e nei due turni di Presidenza del Consiglio fu molto attento alla buona amministrazione, ma mai attratto dalla ordinaria amministrazione.

Dell'Alleanza Atlantica il suo partito era stato fermissimo sostenitore fin dagli inizi e non occorrevano davvero rettifiche di tiro. La preoccupazione di Moro che gli americani sarebbero stati perplessi per le mani tese a Nenni (Premio Stalin) si sarebbe del resto molti anni dopo dimostrata priva di fondamento perché proprio a Washington i socialisti italiani avevano trovato allora a nostra insaputa concreta com prensione.

Spadolini fu fermissimo nell'indirizzo della apoliticità dei militari e del non sconfinamento dei Servizi dai loro compiti (l'ombra di una interferenza contro Pacciardi in un congresso repubblicano).

Per una strana congiuntura, Spadolini fu il primo presidente non democristiano dopo trentasei anni, a causa delle polemiche insorte attorno alla loggia P2 che avevano messo in crisi il Ministero Forlani. Ora, per quanto si potesse considerare anomala la loggia del signor Gelli, alla Massoneria non era certamente più vicina la Dc rispetto al Partito Repubblicano (non parlo di Forlani e di Spadolini come persone).

Il pentapartito di Giovanni durò undici mesi e andò in crisi per il rigetto da parte della Camera di un decreto fiscale del ministro Formica, ma entro lo stesso mese di agosto del 1982 si ebbe la fotocopia del Gabinetto precedente: identico. Ma quella che fu chiamata la lite delle comari, e cioè un chiassoso contrasto tra Andreatta e Formica, portò dopo ottantuno giorni alla crisi dello Spadolini Due, cui successe - in attesa di Craxi - il richiamo in servizio per quattro mesi del Presidente Fanfani.

Craxi chiamò me agli Esteri e Spadolini alla Difesa. Furono due anni di buon governo, sbilanciati solo da un dissenso di fondo sul rapporto con gli Stati Uniti (la mia formula era: "amici", ma sul riposo e non sull'attenti) e sul problema palestinese.

Craxi ed io eravamo per il dialogo (Dichiarazione Europea di Venezia del 1980), mentre Spadolini era un israeliano di ferro: tanto da non criticare nemmeno il non rispetto della legge del taglione (occhio per occhio, ecc.) quando per tre israeliani uccisi a Larnaca un bombardamento a Tunisi provocò un massacro.

La tempesta però venne per la questione del dirottamente dell'Achille Lauro e per la ferma opposizione a consegnare i responsabili agli americani, piombati con prepotenza nell'aeroporto di Sigonella. Circostanza curiosa. Chi ci aveva consigliato di chiedere l'intervento di Arafat era stato il Dipartimento di Stato!

Il Pri si dissociò dal governo provocando la crisi, tuttavia rappezzata fino al giugno 1986, quando il governo fu battuto su un provvedimento di finanza locale.

Craxi rimase in sella per altri dieci mesi (il nostro trio evitò sussulti), ma gli scontri tra Craxi e De Mita, segretario della Dc, portarono a nuovi approdi dopo centododici giorni di commissariamento Fanfani.

Si inserisce qui la fase senatoriale di Spadolini, con anni di splendida presidenza che avrebbe voluto continuare e non fu così solo per un voto di scarto, a favore del candidato di centrodestra Carlo Scognamiglio. Quel giorno Giovanni pronunciò autentiche invettive contro i colleghi; e all'indomani illudendosi su un appoggio dei comunisti pose invano la candidatura alla presidenza della Commissione Esteri.

Non credo sia una forzatura attribuire la sua morte al doppio trauma della mancata elezione. Il male che silenziosamente lo minava da tempo fece crollare le sue resistenze interne.

In clinica ricevette una delegazione dell'Università Cattolica di Santiago del Cile, che gli aveva conferito la laurea ad honorem.

Il "laico" Giovanni Spadolini riceveva l'omaggio di una università cattolica. Non certo immeritato e neppure contraddittorio.

Mantenere fede ai suoi principi ideali

di Oddo Biasini

Il decimo anniversario della morte di Giovanni Spadolini ha ispirato ricordi e rievocazioni della sua grande figura di storico, statista, politico; gli aspetti della sua esemplare attività in tutti i campi sono stati rievocati e messi nella luce dovuta. Qualche tempo fa, a Bologna, in un Convegno che registrava la presenza e l'intervento di noti studiosi - ed in particolare di illustri direttori di giornali - tema dominante era lo stretto legame tra cultura e giornalismo, materia di cui Giovanni Spadolini fu maestro e guida nelle pagine del "Carlino" e del "Corriere". Questa resta ancora oggi l'eredità universalmente riconosciuta di Giovanni.

E il "Corriere", che Giovanni diresse, ha sottolineato, lo scorso 1° agosto, la sua grande capacità di intuizione, la sua figura legata per altro a vincoli di profonda, fraterna amicizia con studiosi di alto respiro e capacità, da Claudio Magris a Gaetano Afeltra, da Cosimo Ceccuti a Giuseppe Galasso, a Giovanni Sartori, quest'ultimo stretto a Spadolini da particolare, affettuosa amicizia.

Ma schietti e profondi sentimenti di amicizia e di affetto, il grande statista sapeva suscitare in chi aveva la fortuna di vivere al suo fianco. La sua giovinezza esemplare lo vide a soli venticinque anni in cattedra all'Alfieri; seguirono la lunga direzione del "Carlino" prima e quella più tormentata, ma non meno magistrale, del "Corriere"; la segreteria nazionale del Pri; i due Governi del 1981 e 1982, la Presidenza del Senato, la nomina a senatore a vita, ed infine la morte prematura e dolorosa che privava l'Italia di uno dei suoi più grandi studiosi e statisti.

Poco resta dunque da richiamare e da ricordare in chi, come chi scrive, ebbe la ventura di vivere al suo fianco, di collaborare alla sua attività e soprattutto di trarre prezioso profitto dalla collaborazione con lui.

Resta certamente in chi visse al suo fianco la pagina di un'amicizia profonda e fraterna che mai conobbe l'alternarsi con sentimenti diversi a quelli che ci legarono fin dall'inizio dell'incontro con lui.

Spadolini seppe rinnovare il partito nella struttura, nella storia, nell'attività quotidiana ad ogni livello di impegno, con quell'azione profondamente premiata da una sensibile crescita di consensi.

Noi che gli fummo discepoli al di là di ogni limite di età, lo ricordiamo nei particolari che ci legarono a lui nella intimità della nostra attività comune: chi scrive queste righe commosse ritorna al primo incontro con Giovanni su di un treno affollato che portava da Roma a Firenze; avevo al mio fianco un caro amico scomparso - Libero Gualtieri - e ponemmo (così abbiamo sempre pensato) le prime pietre dell'adesione di Giovanni al Pri.

Ricordo quella giornata di caldo luglio a Cesenatico, l'incontro con Giovanni (fu la prima ed unica volta, credo, che vidi Giovanni togliersi la giacca) quando insieme delineammo la forma del passaggio della segreteria nazionale del Pri da chi scrive all'intelligenza e alla passione di Giovanni Spadolini.

Ricordo la collaborazione stretta - che con lui continuò fino alla sua scomparsa - quando venivo richiamato alla responsabilità della segreteria del Pri dalla quale si allontanava nei tempi che lo portavano ad incarichi e responsabilità di prestigio nazionale.

Ricordo gli ultimi giorni della sua vita, le ultime parole che da lui mi fu dato di ascoltare. Il vuoto che egli avvertiva e la dolorosa consapevolezza di quanto stava precipitando nel Paese.

E spero ancora che nel nome di Giovanni Spadolini, in una rinnovata fedeltà ai principi a agli esempi che egli ci ha lasciato, si possa ricostruire il lascito dei suoi insegnamenti.

Fra affetto e riflessione

Lavorare seguendo le sue indicazioni

di Antonio Del Pennino

Ricordare Giovanni Spadolini a dieci anni dalla scomparsa non può essere per i repubblicani solo una testimonianza di riconoscenza e di affetto. Deve essere motivo per una riflessione su quanto del suo insegnamento è ancora oggi valido, malgrado un quadro politico profondamente cambiato.

Ed il pensiero non può non andare all'indicazione che egli diede nella sua relazione al Congresso del Pri di Milano del 1984: "La prospettiva di un Partito della Democrazia, interprete di un'Italia più moderna e civile, capace di spezzare tutte le catene e tutti i vincoli dei confessionalismi di opposto segno".

Spadolini partiva da una previsione che non collocava nell'immediato: "Il tramonto delle ideologie di sinistra nel loro senso ancestrale, nella loro vocazione messianica e millenaristica. Anzi, il tramonto di tutte le ideologie ... la disideologizzazione tendenziale della lotta politica ... il graduale logoramento e quasi dissolvimento delle grandi utopie fideiste".

Pur immerso nella lotta politica di allora, egli antivedeva, nella sua concezione di storico, una prospettiva destinata a realizzarsi alcuni anni dopo, con la caduta del regime sovietico e con il conseguente venir meno dei collanti ideologici che avevano contrassegnato il primo quarantennio della nostra vita repubblicana.

Chi osserva il panorama politico odierno non può infatti non rilevare come le distinzioni ideologiche fra le forze politiche si siano fortemente attenuate e si assista, a destra e a sinistra, ad una rincorsa nel disconoscimento dei propri antenati e nella riscoperta di valori che appartengono ad altre storie.

Questo peraltro non ha significato la realizzazione di una compiuta democrazia dell'alternanza fra due schieramenti che si legittimino pienamente fra di loro. Assistiamo piuttosto ad un improvvisato bipolarismo caratterizzato da profonde contraddizioni all'interno di ogni coalizione.

E si sente la mancanza di quella moderna cultura delle istituzioni cui Spadolini sempre si richiamava.

Basta pensare a quella che Spadolini avrebbe chiamato "l'ubriacatura federalista", che ha portato il centrosinistra alla sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione nella passata legislatura, ed all'incapacità del centrodestra di correggerla oggi, quando piuttosto si rischia di aggravarla.

Basta pensare al tema del ruolo dei partiti che egli aveva posto in vari discorsi parlamentari rilevando come occorresse "andare alla radice dell'articolo 49 attraverso certe forme di controllo che penetrino anche all'interno della vita dei partiti". Un tema che oggi viene negato in egual misura sia a destra che a sinistra, e che è invece uno dei nodi fondamentali per consentire una ripresa di credibilità della politica. Basta pensare alla rinuncia alla difesa dei principi della laicità dello Stato che Spadolini aveva riassunto nella formula "il Tevere più largo". Rinuncia che accomuna il centrodestra ed il centrosinistra preoccupati di conquistare un voto cattolico che sempre più ricorda le lucciole di Pasolini.

Per questo realizzare l'indicazione spadoliniana di un "Partito della Democrazia" "interprete privilegiato dell'Italia tecnica e professionale, quella che produce e che lavora, che rischia in proprio e che respinge gli schemi classisti al pari delle seduzioni dell'assistenzialismo o del corporativismo" appare strumento indispensabile per una migliore articolazione della lotta politica.Nel ricostruire la genesi del "Partito della Democrazia" Spadolini lo collocava "esattamente a metà strada tra Giovanni Amendola, l'animatore inconfondibile dell'Unione Democratica Nazionale, ed Ugo La Malfa, che aveva portato nel vivo della lotta politica italiana la posizione di una forza democratica e laica, riformatrice e non socialista. Passando attraverso il generoso tentativo di socialismo liberale di Carlo Rosselli, la ricomposizione in chiave storiografica della dicotomia tra repubblicanesimo e socialismo abbozzata dal Nello Rosselli di "Mazzini e Bakounine".

Tutti antenati di cui molti oggi cercano di appropriarsi senza titolo.

Onorare Giovanni Spadolini a dieci anni di distanza dalla scomparsa significa per noi lavorare per costruire il "Partito della Democrazia".

Storia del segretario fiorentino

Fu un protagonista dei nostri anni '80

di Stefano Folli

A dieci anni dalla morte, avvenuta a Roma in un'afosa giornata di agosto, la memoria di Giovanni Spadolini è ancora singolarmente viva. Non è un destino comune. Ma si potrebbe dire addirittura che a Spadolini tocca di essere via via riscoperto, come se l'Italia di oggi, tormentata e malcerta, avesse bisogno di punti di riferimento morali e li trovasse, quasi senza accorgersene, nella lezione del professore fiorentino. O meglio, del "segretario fiorentino", come lo definì Indro Montanelli in un famoso articolo alludendo a un altro insigne segretario fiorentino, Niccolò Machiavelli. Definizione, inutile dirlo, che a Spadolini piacque moltissimo e che confermò, una volta di più, l'amicizia con Indro: un'amicizia mai banale, mai scontata, intessuta di ironia e innocenti sarcasmi. A Montanelli piaceva scherzare sui difetti umani di Spadolini, come quando scrisse: "Giovanni è fortunato perché è innamorato e si ricambia".

Spadolini sapeva sorridere, magari a denti stretti, di queste innocue canzonature e sapeva ricambiarle da par suo, perché nemmeno a lui faceva certo difetto lo spiritaccio toscano. Ma dietro queste schermaglie s'intravedeva la stoffa di qualità di un uomo che seppe essere, come ha scritto l'altro giorno Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera", "trifacente".

Significa che Giovanni Spadolini riuscì a interpretare al meglio sia la dimensione dell'uomo di cultura, sia quella del giornalista, sia quella dell'uomo politico. A quest'ultima passione, forse la più bruciante, dedicò gli ultimi ventidue anni della sua vita, da quando entrò in Senato nel 1972, appena uscito dolorosamente da via Solferino. Fu Ugo La Malfa a chiamarlo ed egli non ebbe alcun dubbio ad accettare l'offerta generosa che riguardava il seggio più prestigioso di Milano. L'intreccio tra la vicenda umana di Spadolini e la storia del Partito repubblicano ha origine allora, ma già da alcuni anni il rapporto personale tra il direttore del "Corriere" e La Malfa aveva scandito tempi e modi della cronaca politica negli anni in cui il centrosinistra vive va il suo appannamento, tra spinte conservatrici e tentazioni massimaliste. Con Giovanni Spadolini alla segreteria, a partire dal 1979, il Pri conoscerà una delle sue stagioni più straordinarie e attraverserà da protagonista i cruciali anni Ottanta. Il segretario fiorentino seppe far vivere le migliori tradizioni del repubblicanesimo italiano, adattandole all'attualità interna e internazionale. Ci si domanda spesso quale sarebbe stato il ruolo di Spadolini se la sorte gli avesse concesso una vita più lunga. Di sicuro pochi come lui seppero vedere i segni della crisi della Prima Repubblica e cercarono inutilmente di porvi rimedio allestendo un programma di riforme che purtroppo rimase sulla carta. E' certo tuttavia che l'Italia degli anni Novanta, l'Italia del dopo Tangentopoli, avrebbe avuto bisogno dell'equilibrio di Spadolini, della sua visione di governo, della sua vocazione a individuare non un generico "centro" della vita politica, bensì le scelte corrette capaci di assicurare all'Italia il posto che le spetta in Europa e nel mondo occidentale, in stretta relazione con l'alleato americano.

Oggi di Spadolini resta l'eredità morale e culturale: la capacità di pensare all'Italia di oggi con lo spirito del patriota. Un patriota che non si chiude mai nella gabbia del nazionalismo, ma sa proiettarsi verso la più grande patria europea secondo l'insegnamento di Giuseppe Mazzini.