Dismissioni di Stato Privatizzazioni deboli se non si liberalizza il mercato di Riccardo Gallo La linea politica dell'attuale Governo sulle privatizzazioni è stata fissata dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, quando l'11 ottobre ha annunciato questa filosofia: "Privato se opportuno, pubblico se necassario". Se ne può desumere che le privatizzazioni vanno fatte se prospettano opportunità non solo per il sistema delle imprese, ma anche per lo Stato venditore. In secondo luogo, che l'intervento diretto dello Stato si fa solo se è necessario, in un certo senso a prescindere dall'opportunità economica, purché sia compatibile con la normativa comunitaria sugli aiuti dello Stato. Nel senso che le scelte dello Stato imprenditore non potrebbero in alcun modo essere diverse da quelle che farebbe un investitore privato attento alla creazione di valore. Quindi, un intervento pubblico compatibile può divenire necessario se non c'è più privato. Non occorre, se questo c'è ancora. Fiat insegna. Lo spirito informatore di questa linea politica appare giustamente neutrale, non ideologizzato. Ma va detto che quello che una minoranza espresse anni fa in Italia fu un ideologismo benefico, perché senza di esso avremmo ancora il sistema delle partecipazioni di Stato occupato dai partiti. Naturalmente, perché sia pragmatica e, perciò, conforme alla cultura dei mercati finanziari, la politica deve essere attenta ai risultati sperimentali dei fenomeni. L'indagine conoscitiva n° 43 della Commissione V promossa dalla Camera dimostrò nel 2001 che nelle imprese privatizzate tra il 1992 e il 1999 era "significativamente migliorata l'incidenza sia del margine operativo (cinque punti sul fatturato, doppio rispetto al triennio precedente la privatizzazione), sia del risultato corrente (6,7 punti rispetto a un valore quasi nullo)". Si notava anche un incremento della quota di vendite all'estero (quasi cinque punti di fatturato in più). Gs e Autogrill erano segnalate per aver fatto gli investimenti più alti dopo la privatizzazione. Si dimostrò inoltre che, quando Gs sei anni dopo fu riceduta alla francese Carrefour, il prezzo ammontò a sei volte il costo d'acquisizione, segno che il valore d'impresa era cresciuto molto. Circa il rammarico per l'uscita del controllo dai confini nazionali, è noto che il vincolo, posto dallo Stato all'acquirente perché non rivenda, non può durare all'infinito e non è gradito ai mercati. Un grande problema di transizione, non ancora risolto in Italia, è il rapporto tra privatizzazione e liberalizzazione. Autorevoli ricerche hanno dimostrato che le liberalizzazioni migliorano l'efficienza del mercato soprattutto quando i soggetti che vi operano sono privati. E in questo caso le liberalizzazioni sono indispensabili. Finché gli operatori nazionali sono pochi, come nell'industria elettrica, c'è il rischio che ad acquistare centrali siano investitori esteri, magari di Paesi in ritardo con le liberalizzazioni. Le giuste lamentele vanno rivolte a chi, specie imprese di Stato, hanno posto ostacoli all'apertura dei mercati. Un secondo problema riguarda i modelli di privatizzazione. Telecom Italia, privatizzata con un nocciolo duro troppo piccolo e poi oggetto di Opa, ha insegnato che il tentativo di precostituire azionariati astratti viene, primo o poi, piaccia o no, vanificato dal mercato. Ma il discorso è noto e sarebbe troppo lungo. "Il Sole 24 Ore" 6 dicembre 2002 |