Governo e sindacati devono siglare un nuovo "Patto per lo Sviluppo"

Oltre il 18

di Giorgio La Malfa

Nella maggior parte dei Paesi europei, così come negli Stati Uniti, il problema del rapporto fra governo e parti sociali è definito dalla natura della coalizione che vince le elezioni: se prevale un partito o una coalizione di sinistra o di centro-sinistra, il governo normalmente stabilisce un rapporto di consultazione o di collaborazione con le organizzazioni sindacali; se prevale una coalizione di centro-destra, il governo tende ad assumere i propri provvedimenti senza tenere in particolare conto le opinioni del sindacato, del quale sconta un atteggiamento contrario se non ostile.

Rispetto alla semplicità di questo schema di rapporti fra governo e organizzazioni sindacali nella maggior parte dei Paesi industriali dell'Occidente, la situazione italiana ha presentato, più o meno per l'intero corso del dopoguerra, una anomalia rilevante, costituita dal fatto che i riferimenti politici del movimento sindacale erano molteplici, taluni facenti capo ai partiti dell'opposizione, altri a quelli di maggioranza. La DC, partito ininterrottamente al governo dall'immediato secondo dopoguerra al 1994, ha avuto e mantenuto un rapporto organico con la CISL. La UIL faceva capo a repubblicani, socialdemocratici e socialisti: fino alla costituzione delle coalizioni di centro-sinistra, essa aveva quindi un legame in parte con partiti di governo, in parte con un partito di opposizione, collegandosi in seguito, interamente ed organicamente, a partiti di governo, peraltro spesso in contrasto fra loro sui temi economici e sociali, come pressoché sistematicamente avveniva fra PRI e PSI nel periodo che va dagli anni ‘60 agli ‘80.

La stessa CGIL, pure organicamente legata al PCI e dunque al maggior partito di opposizione, aveva una componente non trascurabile di matrice socialista la quale, negli anni del centro-sinistra, venne a trovarsi in una posizione di confine. Ovviamente, nelle fasi della solidarietà nazionale, a metà degli anni ‘70 e di nuovo nel periodo compreso fra il 1995 ed il 2001, la stessa CGIL nel suo complesso ha assunto la natura di un movimento sindacale organicamente collegato con i partiti di governo.

La peculiarità del caso italiano in tema di rapporti fra governo e sindacati nasce da questo legame diretto ed organico fra partiti di governo e organizzazioni sindacali, che a loro volta facevano riferimento, in tutto o in parte, a forze politiche di opposizione e dal fatto che, nello stesso tempo, le organizzazioni sindacali erano legate fra loro - a partire dagli anni '60 - da un patto di unità di azione. In queste condizioni era naturale e nello stesso tempo inevitabile che la concertazione con le parti sociali divenisse un capitolo molto rilevante dell'azione di governo e che le organizzazioni sindacali divenissero in sostanza il primo e principale interlocutore di quest'ultimo, spesso a scapito del rapporto stesso fra il governo ed il Parlamento. Le tre organizzazioni sindacali riproducevano infatti, pur con rapporti numericamente alterati, la geografia politica di un Parlamento, e l'accordo o il disaccordo con il movimento sindacale assumeva una fisionomia analoga a quella del rapporto di fiducia fra governo e Parlamento. Anzi, in molte occasioni, il giudizio del sindacato sull'azione del governo acquisiva il valore di un atto parlamentare fino a prenderne il posto. Lo si vide, ad esempio, quando l'onorevole Rumor, Presidente del Consiglio, offerse le dimissioni sue e del suo governo, il 5 luglio 1969, all'indomani della proclamazione di uno sciopero generale.

Proprio questa complessa architettura delle relazioni fra governo e parti sociali spiega molti dei difficili problemi di definizione delle linee di politica economica e sociale dei governi di centro-sinistra ed una certa confusione che permane anche oggi nell'affrontare e nel mettere a fuoco i problemi del rapporto fra il governo e le parti sociali.

Il governo Berlusconi segna, in questo campo, una profonda discontinuità rispetto all'intero corso del dopoguerra. Si tratta infatti del primo governo nel quale viene meno del tutto il rapporto organico fra uno o più partiti della coalizione ed una o più fra le grandi confederazioni sindacali. Questo impone una riflessione, che per l'Italia è nuova, sul problema del rapporto fra governo e parti sociali, e mette in rilievo la possibilità di impostare, anche alla luce dell'esperienza di altri Paesi, in modo più lineare di quanto non sia stato possibile in passato, il problema della consultazione, della concertazione o della stipulazione di un eventuale patto con le parti sociali.

In realtà il peso dell'esperienza italiana fino ad un recente passato ha finito col produrre nel governo e nelle organizzazioni sindacali atteggiamenti che, seppure largamente spiegabili, non sono tuttavia i più utili a impostare correttamente una serie di problemi. Per il governo la tentazione più forte è quella di mettere da parte l'idea della concertazione, considerandola come un'espressione di una fase consociativa della vita italiana e di abolire, fatta salva un certa cortesia formale, il dialogo sociale. Per le organizzazione sindacali e per i partiti che in un modo o nell'altro hanno ancora un riferimento in esse – partiti che oggi sono tutti all'opposizione: Popolari, SDI, DS, Comunisti Italiani - la tentazione è di spingere il sindacato su posizioni di rigido rifiuto del dialogo sociale. A soffrire maggiormente per tale nuovo assetto, irto di difficoltà, sono la CISL e la UIL che, per le abitudini maturate negli anni del centro-sinistra, sono organicamente disposte al dialogo ma, per le circostanze attuali e per la pressione della CGIL, sono attirate in direzioni diverse e contraddittorie. In queste condizioni la tentazione è di buttare all'aria la pratica della concertazione.

Prima di dire che cosa conviene fare, bisogna chiedersi se serve la concertazione o addirittura la stipulazione di un patto sociale. Nell'esperienza di questi anni, un vero e proprio patto sociale con i sindacati è stato possibile soltanto quando il PCI – e più di recente i DS - ha avuto dirette responsabilità di maggioranza o di governo. Negli altri casi, cioè nel corso dell'esperienza del centro-sinistra, il peso della CGIL e del legame di questo sindacato con il PCI, non ha consentito altro che accordi parziali e nel complesso sbilanciati fra ciò che il sindacato concedeva e ciò che in contropartita esso otteneva, non tanto sul piano dei contratti di lavoro, quanto sul piano della legislazione fiscale, previdenziale, sanitaria e così via. E poiché la presenza del PCI prima e dei DS poi nelle maggioranze e nei governi, ha coinciso con situazioni economicamente eccezionali – per i livelli toccati dall'inflazione negli anni ‘70 e per la necessità di affrontare in maniera drastica la condizione della finanza pubblica in vista dell'aggancio con l'euro negli anni '90 - in Italia la concertazione ed il patto sociale sono apparsi strettamente collegati con fasi di emergenza, nelle quali si trattava di determinare in tempi rapidi una correzione di situazioni di pericolo. Il patto sociale appariva dunque come lo strumento per una politica di sacrifici. Il sindacato tende oggi a considerare le eventuali modifiche all'articolo 18 dello statuto dei lavoratori come parte di una stessa politica di sacrifici chiesti al mondo del lavoro: ovviamente tende ad opporsi ad esse.

In realtà la prima e più organica proposta di patto sociale non fu collegata alla necessità di affrontare situazioni di emergenza. Si tratta del disegno contenuto nella Nota Aggiuntiva redatta da Ugo La Malfa, ministro del Bilancio di quel governo Fanfani del 1962 che preparò le condizioni per primo governo organico di centro-sinistra, realizzato nel 1963 con la partecipazione al governo del Partito socialista italiano. Nella Nota Aggiuntiva e in una successiva lettera indirizzata al presidente del Consiglio, onorevole Moro, nel quale si delineava compiutamente lo strumento della politica dei redditi, Ugo La Malfa proponeva alle parti sociali di partecipare alla elaborazione di una politica di sviluppo economico, volta a utilizzare la spinta della crescita spontanea degli anni del "miracolo economico". Questo per cercare una soluzione ai tre principali squilibri che caratterizzavano allora, ed in parte tuttora caratterizzano, la società italiana: lo squilibrio fra il Nord e il Mezzogiorno, quello fra la città e le campagne, e lo squilibrio fra i consumi individuali in crescita e i consumi sociali ( sanità, scuola, infrastrutture).

Alle parti sociali veniva chiesto di partecipare, insieme con il governo, all'elaborazione di un organico progetto di sviluppo, centrato sugli investimenti privati e pubblici, e di inquadrare le proprie rivendicazioni contrattuali in questo schema di sviluppo: non si trattava di raggiungere un accordo contro l'inflazione o contro il debito pubblico e quindi di accettare i sacrifici conseguenti. Si proponeva invece di collegare la crescita dei redditi individuali ad una crescita complessiva dell'economia italiana: un percorso che avrebbe consentito, alla fine di questo sforzo, di raggiungere la piena occupazione, un aumento della produttività, un'adeguata dotazione di beni sociali in tutti i campi. Si trattava, in altre parole, di un patto sociale per lo sviluppo, che tuttavia i sindacati rifiutarono, proprio per la pressione politica del PCI, di cui la CGIL si fece interprete.

Pur nei termini diversi rispetto ad allora, vista l'evoluzione delle circostanze interne ed internazionali che nel frattempo hanno toccato la società italiana, oggi si pone lo stesso scenario. L'Italia, per effetto delle politiche condotte dal 1992 in avanti, ha risolto il problema dell'inflazione e fortemente attenuato il problema del deficit di bilancio. Ma ha davanti a sé il rischio, in parte comune a tutta l'Europa, in parte proprio della nostra situazione, di una crescita lenta e insoddisfacente, nel complesso inadeguata a risolvere problemi che pure non possono essere lasciati languire se non si vuole determinare una crisi di fiducia nell'opinione pubblica.

Il patto sociale per lo sviluppo va riproposto e va delineato in tutte le sue componenti. Sbaglierebbe il governo a non cercare di associare le parti sociali a questa impostazione. Sbaglierebbero le parti sociali a sottrarsi a un confronto che partisse da questa impostazione e che da essa ricavasse deduzioni coerenti. Non è l'articolo 18 il tema centrale del confronto fra il governo e le parti sociali. Piuttosto risultano centrali i problemi della crescita dell'Italia, dei suoi investimenti, della produttività, il recupero del ritardo nei settori tecnologicamente avanzati, il superamento del divario nella dotazione di infrastrutture e così via. Il tema fondamentale è dunque quello della ricerca di un patto sociale, che rimane uno strumento importante di governo e di indirizzo di un'economia di mercato.

Naturalmente se il sindacato si dovesse sottrarre al confronto, il Governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene dovrebbero procedere da soli, ma dovrebbero farlo dopo avere cercato ed esperito ogni tentativo di promuovere un'ampia intesa ampia sugli obiettivi da perseguire e sugli strumenti e le compatibilità necessarie per raggiungerli.

liberal n.12 giugno luglio 2002