L'intervento dell'on Francesco Nucara alla "Settimana italiana della Magna Grecia" New York City 17/20 giugno

Democrazia e potere

Non tocca a me qui, in America, nella terra dove la "Repubblica dei moderni" ha avuto la sua prima attuazione con la Carta di Filadelfia, ripercorrere un dibattito che tuttora impegna storici, filosofi e politologi sull'avvenire della democrazia.

Né voglio rubare il mestiere (e sarebbe velleitario) al nostro Presidente, il Prof. La Palombara, che ho avuto l'onore e l'occasione di ascoltare e salutare recentemente a Roma, presso la Fondazione Ugo La Malfa, dove ci ha aggiornato sullo stato della democrazia americana e sui nuovi equilibri geostrategici mondiali, dopo i fatti dell'11 settembre. Ma voglio ricordare che proprio in questi grandi spazi fu smentito, alla fine del XVIII secolo l'assioma che fu anche di Jean-Jacques Rousseau secondo cui la repubblica sarebbe stata compatibile soltanto con il governo della polis.

E' da tutti accettato che nel quadro dell'economia globalizzata, il binomio "politica e potere" vada letto in una prospettiva dinamica, dove lo Stato-Nazione si stempera e si ridefinisce in orizzonti concentrici sempre più larghi, superando frontiere che la terza rivoluzione industriale, quella dei computers, arricchisce di nuovi dati sullo sfondo di quella bella immagine che un grande storico tedesco, Meinecke, definiva "il grande mareggiare della storia". Nel senso cioè che la storia, come il mare, sempre ricomincia e sempre si rinnova.

Era quello che Eraclito, il filosofo presocratico di Efeso, intendeva con il "tutto scorre" quando affermava che non ci si bagna mai nella stessa acqua. Così è della democrazia, mai fatto compiuto una volta per tutte, ma come la politica, e come l'arte, creazione continua di fatti inediti.

Ma a parte questa digressione, voglio qui rivendicare, anche come segretario del PRI - il più antico partito italiano - i legami e i sentimenti di affetto che la mia parte politica ha sempre nutrito con questa grande democrazia in azione, dove la Costituzione ha creato l'America, e dove l'intuizione federalista di uno dei nostri grandi del Risorgimento, Carlo Cattaneo, ha trovato la sua piena realizzazione in un sistema di pesi e contrappesi che fa della democrazia locale la sua chiave di volta.

Cattaneo, nel suo storicismo, meditando sulla storia delle nazioni, in particolare Svizzera e Stati Uniti, individuava nel federalismo il punto di svolta e di superamento dello stesso garantismo costituzionale dell' "Esprit des lois" di Montesquieu. Per Cattaneo era indiscutibile che il garantismo della divisione dei poteri era una conquista di libertà rispetto ai regimi del passato. Ma i suoi risultati, con tutti i loro limiti, erano ben lontani dal realizzare quello "Stato federale" repubblicano, che rompendo le maglie dell'accentramento burocratico stile "ancien règime", fatto proprio dal modello napoleonico, desse la possibilità di far partecipare alla vita della nazione non l'individuo isolato (il che sarebbe stato nella migliore delle ipotesi un puro formalismo giuridico), ma l'individuo in quanto inserito in una organizzazione lungo una linea evolutiva di autonomie, senza soluzione di continuità, fino al Parlamento nazionale.

"La libertà - scriveva Cattaneo - non deve piovere dai santi del cielo, ma scaturire dalle viscere dei popoli. Chi vuole altrimenti è nemico della Libertà".

E' in questo scaturire dalle "viscere del popolo", la sostanza del federalismo che l'animatore e protagonista delle Cinque giornate di Milano vedeva realizzata nella democrazia americana. Una democrazia, che nata dal principio: "non c'è tassazione senza rappresentazione" a tutti i livelli ("no taxation without representation"), ha fatto degli Stati Uniti la democrazia delle leggi e non degli uomini.

Se è vero, come è vero, che qui la Corte suprema può dichiarare incostituzionali gli atti del Congresso impedendo che divengano leggi, in quanto la Costituzione scritta è ritenuta superiore alle assemblee legislative.

"Un governo di leggi e non di uomini", diceva John Adams, infrangendo il feticcio dell'intoccabilità delle maggioranze parlamentari.

Un governo di leggi in un sistema presidenziale dove, come diceva un altro "padre fondatore" della democrazia americana, Jefferson, il "presidente è potente, ma il Congresso è onnipotente".

Una "onnipotenza" che si ferma dinanzi alla superiorità della legge.

Ecco la democrazia che scoprì sulle coste occidentali dell'Atlantico un altro repubblicano italiano, Dario Papa, che rafforzò le sue convinzioni federaliste in un lungo viaggio di studi proprio negli Stati Uniti, nei primi anni Ottanta del XIX secolo. "New York, New York" è il libro che, pubblicato nel 1884, esalta il federalismo realizzato dopo la vittoria di Lincoln sui secessionisti del Sud.

Un Lincoln, peraltro amico di Mazzini, e che vuole affidare a Garibaldi addirittura il comando dei soldati nordisti. Tant'è l'intreccio fra il Risorgimento italiano e la democrazia americana.

Ma torniamo all'autore di "New York, New York". Dario Papa, che a vent'anni si trasferisce dalla sua Rovereto a Milano, ai tempi di Bezecca, nel 1866. Redattore di alcune testate moderate come l' "Italia Agricola", il "Sole", la "Perseveranza", il "Pungolo", poi direttore dell' "Arena di Verona", è, nel 1881, caporedattore del "Corriere della Sera".

E' qui che matura la sua evoluzione verso il repubblicanesimo di stampo cattaneano. Il suo viaggio in America lo rafforza in queste convinzioni.

Ritornato in Italia, porta un soffio di vita americana nel nostro giornalismo, battendosi per il riconoscimento della professionalità e dell'indipendenza del giornalista. E, primo in Italia, introduce i moduli organizzativi e grafici della stampa d'informazione americana durante i cinque anni della direzione del quotidiano milanese "L'Italia" (1884 - 1889).

Un anno dopo, con l'aiuto finanziario dei radicali e dei repubblicani, e con l'appoggio di Filippo Turati, fonda "L'Italia del Popolo", riesumando l'antica testata mazziniana apparsa a Milano nel meriggio del '48.

In tale veste partecipa nel 1894 (tre anni prima della sua scomparsa a San Remo dove si spegne colpito dal "male del secolo", la tubercolosi) alla costituzione del Partito repubblicano lombardo. Un retaggio, e una testimonianza, che Dario Papa, trasmette alle generazioni dei repubblicani, che trovano in America il loro modello di Repubblica, fino alla leggendaria "Mazzini Society", in cui si ritrovano repubblicani che si chiamano Carlo Sforza, Randolfo Pacciardi, Giuseppe Antonio Borgese, e uomini come Gaetano Salvemini, Arturo Toscanini e Luigi Sturzo.

Sono i firmatari di quel manifesto che vuole organizzare una legione italiana sul modello della "France Libre", del generale De Gaulle, per battersi a fianco agli alleati con l'impegno che si rispettino i confini italiani sanciti alla fine della prima guerra mondiale.

Le cose andranno in altro senso: ma è lanciato il seme di quella collaborazione fra l'Italia post-fascista e l'America del Piano Marshall e del Patto Atlantico, alla quale il PRI ha coerentemente guardato nella sua iniziativa politica e parlamentare.

Da tale collaborazione è partita la ricostruzione dell'Italia.

I repubblicani italiani, nella continuità di una coerenza che la storia non ha smentito, hanno avuto con gli Stati Uniti un rapporto che vogliono rafforzare, e che unisce negli stessi valori le due sponde dell'Atlantico. Così come nel mondo classico furono identici i valori che dal mondo greco si trasfusero nel mondo romano.