L'espressione
della democrazia
Delle
tre correnti politico-culturali che hanno caratterizzato l'evoluzione
dell'Europa e del mondo occidentale nel XIX e nel XX secolo: il pensiero
liberale, quello democratico e quello socialista, il Partito repubblicano
durante tutta la sua storia si è sempre sforzato di rappresentare
l'espressione della democrazia nel suo significato più pieno. Mentre
i gruppi conservatori aderirono tardivamente, senza alcun entusiasmo,
al moto per l'indipendenza e l'unità dell'italla, e per di più
lo fecero nella speranza di poter annullare quanto in esso vi era di progressivo
sul terreno economico e politico, gli uomini della democrazia repubblicana
guardarono alla soluzione dei problema nazionale come alla condizione
essenziale perché il Paese potesse liberarsi da uno stato di torpore
e di indifferenza che stava spegnendo le sue energie, lo allontanava dall'Europa
e dai fermenti di progresso diffusi in tutto il continente, ed in particolare
in Francia e in Inghilterra. Questa esigenza comune non impedì
che all'interno della democrazia risorgimentale si registrassero divergenze
talvolta sensibili sulle strategie e sulle prospettive stesse della lotta
per l'unità nazionale. La concezione unitaria di Giuseppe Mazzini
si scontrò spesso con il federalismo di Carlo Cattaneo, mentre
Carlo Pisacane indicò soluzioni originali che si richiamavano più
di quanto non fosse nel pensiero di Mazzini e Cattaneo ai princìpi
della democrazia diretta. Al di là di queste differenze (che d'altra
parte erano la necessaria conseguenza dell'impegno, tormentato e al tempo
stesso spregiudicato, con cui la democrazia italiana ricercava le sue
strade), l'unità del movimento si ricomponeva non soltanto sul
terreno dell'azione, ma soprattutto al più alto livello ideale
del rifiuto dello storicismo intransigente che doveva caratterizzare tutto
- o quasi tutto - il pensiero sociale dei XIX secolo, non escluso quello
marxiano. Mazzini e Cattaneo non negarono l'esistenza dei conflitti sociali,
riconobbero anzi che questi conflitti avevano influenzato il corso della
storia, ma respinsero con decisione l'idea che dalla loro esistenza potessero
ricavarsi leggi rigide che avrebbero vincolato in modo meccanico ed esclusivo
il futuro dell'umanità, senza tener conto dei caratteri distintivi
di ciascun popolo. Mazzini e Cattaneo rifiutavano anche le conseguenze
che il socialismo faceva discendere dalle costanti della lotta di classe:
la dittatura dei proletariato; e sostenevano che le istituzioni democratiche
non potevano esse stesse diventare strumento di oppressione di un gruppo
sull'altro, ma dovevano essere costruite in funzione della necessità
di "incivilire" la lotta politica, garantire, cioè, il libero confronto
tra i diversi interessi rappresentati all'interno della società.
Partendo da queste premesse, si deve riconoscere che l'associazionismo
mazziniano esprime una linea di pensiero che non sempre è stata
divulgata felicemente con la pura e semplice ripetizione della formula
del "capitale e lavoro nelle stesse mani". Nella mente di Mazzini questa
formula non aveva nulla di assoluto, ma si legava ad una concezione che
non esclude né la libera iniziativa, né la partecipazione
dello Stato a quelle attività non gestite dai privati, e nello
stesso tempo riaffermava un'esigenza di democrazia anche all'interno delle
strutture economiche. L'associazionismo mazziniano, al di là delle
formule, esprime la convinzione che la costruzione della democrazia e
lo sviluppo dell'economia sono strettamente legati tra di loro e richiedono
uno sforzo solidale di tutte le classi sociali che abbia di mira, nello
stesso tempo, una più equa distribuzione della ricchezza e lo sviluppo
della produzione. Ma qual era, in conclusione, il tipo di Stato proposto
dalla democrazia repubblicana? " La Repubblica - afferma Mazzini rivolgendosi
all'Assemblea Costituente della Repubblica romana del 1849 - è
conciliatrice ed energica. Il Governo della Repubblica è forte.
Quindi non teme: ha missione di perseverare intatti i diritti e il libero
compimento dei doveri d'ognuno. Il suo Governo deve avere la calma generosa
e serena, non gli abusi della vittoria. Inesorabile quanto al principio,
tollerante e imparziale cogli individui: aborrente dal transigere e dal
diffidare: né codardo né provocatore; tale deve essere un
governo per essere degno dell'istituzione repubblicana. Economie negli
impieghi; moralità nella scelta degli impiegati. Ordine e severità
di unificazione e di censura nella sfera finanziaria, guerra ad ogni prodigalità,
attribuzione d'ogni denaro del paese all'utile dei paese; esigenza inviolabile
d'ogni sacrificio, ovunque le necessità del paese lo impongano.
Non guerra di classe, non ostilità alle ricchezze acquistate, non
violazioni improvvise o ingiuste di proprietà; ma tendenza continua
al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna, e volontà
ferma di ristabilire il credito dello Stato e freno a qualunque egoismo
colpevole di monopolio, d'artificio o di resistenza passiva dissolvente
o procacciante alterarlo. Poche e caute leggi. Ma vigilanza decisa nell'esecuzione
".
Dopo
l'unità d'Italia
Con il
compimento dell'unità, il movimento della democrazia repubblicana
venne a trovarsi in una condizione di grave difficoltà, solo in
parte determinata dalla conclusione del moto risorgimentale, che aveva
visto il prevalere delle correnti liberalconservatrici raccolte attorno
alla monarchia sabauda. Oltre che da questi motivi, la crisi che colpì
il movimento repubblicano all'indomani di Porta Pia traeva origine in
misura consistente dai meccanismi elettorali imposti dal regime monarchico,
i quali limitavano l'esercizio del diritto di voto a poche centinaia di
migliaia di privilegiati. In queste condizioni una forza popolare, come
quella rappresentata dai repubblicani, non poteva praticare altra strada,
se non quella dell'astensionismo elettorale. A prescindere da ogni altra
considerazione sui metodi con i quali i governi liberalconservatori, cui
non bastava la ristrettezza dei suffragio elettorale, usavano gestire
le elezioni, la partecipazione avrebbe comportato una divaricazione fra
i vertici, che inevitabilmente avrebbero dovuto tener conto degli interessi
e degli umori dei corpo elettorale, e la base dei movimento, le cui aspirazioni
nulla potevano avere in comune con quelle dei privilegiati ammessi al
voto. Non di meno questa scelta, pur essendo largamente giustificata da
ragioni politiche e da ragioni ideali, impediva ai repubblicani di esercitare
in Parlamento il loro ruolo naturale di forza riformatrice e nello stesso
tempo contribuiva ad accentuare quel senso di smarrimento che aveva colpito
tutto il movimento alla morte di Giuseppe Mazzini, avvenuta proprio nel
momento in cui più aspra si era fatta la polemica con gli internazionalisti,
il cui rigoroso sovversivismo veniva oltre tutto legittimato dall'indirizzo
ciecamente conservatore dei gruppi dominanti. Pur in presenza di tali
difficoltà, acuite da uno stato di arretratezza del Paese tale
da non lasciare spazi ad un'azione che, proprio per essere riformatrice,
richiedeva un'opera paziente e di lungo respiro, che l'opinione pubblica
non sempre poteva essere in grado di valutare in tutta la sua complessità,
il movimento repubblicano seppe trovare un punto di equilibrio tra le
aspirazioni rivoluzionarie verso le quali tentava di sospingerlo la monarchia,
e l'inserimento nel regime, che lo avrebbe inevitabilmente portato a svolgere
una funzione subalterna rispetto agli interessi dominanti proprio perché
nel Paese mancavano forze capaci di sostenere adeguatamente il suo tentativo.
I repubblicani compresero di doversi preparare a svolgere un'opera lunga
e paziente per liberare, in primo luogo, il mondo operaio e contadino
dall'egemonia esercitata da ambienti conservatori incapaci di andare oltre
la pura e semplice filantropia. In altre parole bisognava abituare il
proletariato all'esercizio e alla tutela dei propri diritti, ma nello
stesso tempo occorreva evitare che lo spettro della Comune parigina potesse
indurre anche i settori più avanzati della borghesia a stringersi
attorno alla corona e ai gruppi conservatori da questa rappresentati.
Fu così che, alla fine dei 1871, per iniziativa dello stesso Mazzini,
veniva fondato a Roma il Patto di fratellanza tra le Società operaie.
I repubblicani portarono nel Patto di fratellanza la loro abitudine a
confrontarsi con la realtà quale essa effettivamente è,
e non quale piacerebbe che fosse. Di fronte alla predicazione sovversiva
dei nuclei internazionalisti, questo rigoroso senso della realtà
fu spesso scambiato per espressione di un astratto solidarismo. In realtà,
ai repubblicani non sarebbe stato difficile lasciarsi andare all'entusiasmo
dell'improvvisazione e contrastare la crescita degli internazionalisti,
facendo ricorso ai loro stessi mezzi. C'è però da domandarsi,
se così fosse stato, quali contraccolpi avrebbe subito la vita
dei Paese, la sua lenta evoluzione e, soprattutto, la sua non ancora sperimentata
unità. Per circa venti anni il Patto di fratellanza rappresentò
il punto di incontro - talvolta anche di scontro - di tutte le forze più
avanzate del Paese. Tra le sue lotte più significative va ricordata
quella condotta a tutela della dignità femminile; così come
va sottolineato l'impegno per la realizzazione delle prime strutture economiche
del proletariato italiano: quasi tutte le prime cooperative; quasi tutte
le prime casse mutue e di resistenza; quasi tutte le prime scuole popolari
sono opera dei Patto di fratellanza e furono dirette e gestite dagli stessi
lavoratori, a differenza di quanto accadde in seno alle organizzazioni
cattoliche. Ma il Patto di fratellanza non è l'unica realizzazione
che i repubblicani abbiano portato a termine in questi anni di lenta e
difficile crescita, contraddistinti da un senso di precarietà al
quale i conservatori reagiscono opponendosi ad ogni segno di apertura.
La presenza repubblicana in questi anni si afferma nel Paese attraverso
una fitta trama di iniziative, per lo più condotte a livello locale,
che hanno lo scopo di mantenere vivi i contatti con la società
civile. Il movimento repubblicano non si limitava a svolgere una stanca
predicazione astensionista, né viveva sulla propaganda irredentista,
che acquistava consistenza e spessore politico con la denuncia del significato
conservatore della politica estera della dinastia, ma tentava di richiamare
l'attenzione della pubblica opinione sui problemi reali del Paese, ed
in particolare sui vincoli posti allo sviluppo da un sistema di governo
in cui tutto concorreva a far sì che le magre risorse nazionali
fossero destinate alle spese improduttive richieste dall'accentramento
burocratico e dal militarismo. Con il passare degli anni, e con il progressivo
aprirsi della società alle esigenze di crescita sociale ed economica,
il compito dei repubblicani doveva diventare più facile e si attenuava
l'impegno astensionistico. I primi deputati repubblicani fecero il loro
ingresso in Parlamento intorno al 1880 e non è un caso che accanto
ad uomini di cultura come Giovanni Bovio e Napoleone Coiajanni si potessero
contare operai come il genovese Valentino Armirotti e, più tardi,
il milanese Pietro Giuseppe Zavattari.
Tra
la fine del secolo e l'inizio del '900
Il Partito
repubblicano italiano si costituiva come forza politica organizzata, dotata
di proprie strutture permanenti, alla fine dei 1895, in un momento di
grave crisi per il Paese, da troppo tempo costretto a misurarsi con le
difficoltà crescenti poste dalla velleitaria politica espansionistica
voluta dai circoli reazionari raccolti attorno alla corona. Rispetto a
questi circoli i repubblicani, negli anni di fine secolo, rappresentarono,
sul terreno politico e sul terreno ideale, una valida forza di alternativa
che, proprio per il suo rifiuto del dogmatismo ideologico, si dimostrava
assai più decisa e assai più concreta di quella che i socialisti
tentavano di costruire. A dispetto delle ricorrenti accuse di formalismo,
la pregiudiziale istituzionale (il rifiuto, cioè, di collaborare
con la monarchia), che il Pri mantenne ferma nonostante la fine dell'astensionismo,
era l'espressione di un progetto di riforma dello Stato che né
i radicali né i socialisti erano ancora riusciti ad enucleare,
gli uni perché timorosi di compromettere la loro marcia di avvicinamento
verso le istituzioni, gli altri perché incapaci di guardare alla
situazione reale dei Paese al di fuori dei rigidi schemi dell'ideologia
classista. All'agnosticismo istituzionale nel quale socialisti e radicali
si erano rifugiati, i repubblicani replicarono sostenendo che le aspirazioni
di giustizia e di eguaglianza rischiano di essere vane se non si collegano
ad una strategia mirante alla creazione di un nuovo modello istituzionale
capace di garantire, attraverso la libertà dei cittadini e l'autonomia
dei corpi associativi e degli enti locali, il civile confronto delle classi.
Le vivaci polemiche tornate ad accendersi nei primi anni dei secolo all'interno
della sinistra, preannunciarono il determinarsi di quella condizione di
difficoltà in cui i repubblicani si sarebbero venuti a trovare
durante tutto il decennio giolittiano. Il giuoco degli schieramenti e
delle alleanze, non sempre chiare, che si formarono in questo periodo,
dovevano far sì che il Partito repubblicano - l'unico a mantenersi
al di fuori di qualunque compromesso - fosse indicato come forza estranea
e contraria al sistema in nome di ideali astratti. Nulla di meno esatto
di questo giudizio che pretendeva di liquidare il Partito repubblicano
come forza politica attiva. In questi anni il Pri, riprendendo una tematica
a lungo sviluppata da Napoleone Colajanni, sottolineò con vigore
che la questione meridionale non poteva essere affrontata secondo l'ottica
delle leggi speciali (un'ottica che oggi si potrebbe definire di tipo
assistenziale), ma poteva essere risolta solo attraverso una coraggiosa
politica che, facendo leva sulle autonomie regionali fosse capace di risvegliare
nelle popolazioni meridionali quelle capacità di intrapresa che
la politica fiscale dei governi monarchici e l'accentramento autoritario
di stampo sabaudo avevano spento. I repubblicani avvertirono anche che
il periodo di prosperità e di pace sociale di cui il Paese stava
godendo grazie alla più duttile politica giolittiana era un periodo
che non avrebbe potuto avere lunga durata, giacché lo sviluppo
del Paese, oltre ad essere rallentato dalle spese improduttive che si
mantenevano su livelli non compatibili rispetto alle sue reali risorse,
poggiava su un sistema che combinava il prelievo fiscale sui ceti più
deboli, ad una politica di aiuti a ben individuati settori industriali
e agrari, ed era pertanto destinato ad accentuare gli squilibri tra le
diverse categorie e tra le diverse aree dei Paese. Il Pri si batteva perché
anche sul terreno economico il Paese si aprisse ai princìpi della
libertà, ma avvertiva che questo terna si legava strettamente ai
più ampi problemi istituzionali e sottolineava che il protezionismo
e la politica di aiuti al capitalismo parassitario erano scelte strettamente
funzionali al tipo di Stato che l'alleanza tra riformisti e giolittiani
era andata costruendo.
La
Prima Guerra Mondiale e la crisi della societˆ italiana
Nell'autunno
dei 1911 la guerra di Libia provocò una crisi politica di vaste
dimensioni, che attraversò tutti i partiti della sinistra, all'interno
dei quali si manifestava la presenza di uomini e gruppi i quali dichiararono
più o meno apertamente di condividere le scelte dei governo. Anche
i repubblicani videro aprirsi una grave contraddizione tra i vertici dei
gruppo parlamentare, inclini ad accettare la tesi del fatto compiuto,
e la base, che non era disposta a fare concessioni di sorta. Ma nel 1912
il Congresso nazionale di Ancona troncò ogni dubbio, ribadì
la condanna nei confronti dei libici (così furono definiti gli
uomini che avevano giustificato l'impresa coloniale) ed affidò
la guida dei partito a Giovanni Conti ed Oliviero Zuccarini. La nuova
dirigenza, formatasi alla scuola di Arcangelo Ghisleri, iniziò
un'opera di chiarimento, troppo presto interrotta dalla guerra. All'indomani
dello scoppio della Prima guerra mondiale - mentre i gruppi conservatori
e militaristi premevano perché l'Italia entrasse nel conflitto
al fianco dell'Austria e della Germania - il Pri, - che sempre si era
opposto all'alleanza con i due Imperi centrali denunciandone la natura
conservatrice e reazionaria soprattutto sul piano interno, lanciò
la campagna per l'intervento diffondendo un manifesto che poneva l'alternativa:
"0 sui campi di Borgogna per la sorella latina, o a Trento e Trieste",
e sottolineava che l'intervento non avrebbe avuto solo delle finalità
nazionali; ma si collocava in una prospettiva europeistica: costruire
"la nuova Santa Alleanza dei popoli... gli Stati Uniti d'Europa ". La
linea interventista, che i repubblicani sosterranno con serenità
e fermezza di fronte all'ambiguità di tutte le altre forze politiche,
non era stata frutto di scelte facili. Il Pri, partito che aveva sempre
combattuto il militarismo e i suoi miti, giudicandoli in contrasto con
i valori della cultura e dell'unità nazionale, partito che si era
sempre battuto contro la politica di potenza e di sopraffazione, sostenendo
che anche la politica estera va assoggettata ai princìpi della
democrazia, non sottovalutava né i pericoli né gli orrori
della guerra. Ma i repubblicani sentirono che era la natura stessa dei
conflitto ad imporre tale scelta, giacché questa volta erano in
gioco le sorti dell'umanità. Posti di fronte all'interrogativo:
"Che cosa accadrà se la guerra sarà vinta dalla Germania
e dall'Austria, i due imperi che si fondano sui princìpi dei militarismo
feudale e dell'autoritarismo statale, e dove prevale una concezione di
vita di per se stessa in contrasto coi princìpi della democrazia"?,
i repubblicani non potevano avere esitazioni. A guerra finita il Pri,
avvertendo che il Paese si stava avviando verso un periodo di rivolgimenti
politici e sociali che avrebbe comportato difficoltà forse ancora
più gravi di quelle sopportate durante il lungo e sanguinoso conflitto,
tentò di riannodare il dialogo con le altre forze della sinistra,
nella consapevolezza che le dure polemiche divampate durante tutta la
guerra non avessero ormai più alcuna ragione di prolungarsi. Secondo
i repubblicani la sinistra non poteva e non doveva esaurire il suo slancio
in una contesa sterile sulle cause dell'intervento, ma doveva fare ogni
sforzo per trovare un punto di intesa che permettesse di utilizzare la
volontà di giustizia dei combattenti al fine di edificare la democrazia.
Al Convegno di Firenze, che si svolse poco dopo la firma dell'armistizio,
i repubblicani, oltre a riconfermare la loro piena adesione ai princìpi
di Wilson, invitarono tutte le forze democratiche a battersi per la convocazione
dell'Assemblea Costituente. Ma l'appello, prontamente accolto dall'Unione
socialista di Leonida Bissolati, dalla Confederazione generale dei lavoro
e dall'Unione italiana del lavoro, l'organizzazione sindacale dei lavoratori
interventisti, fu respinto dal Psi, ormai preda dei massimalismo. I socialisti,
lanciati da un'irrazionale volontà di rivalsa in una dura campagna
di violenza, talvolta morale, talvolta fisica, nei confronti degli interventisti,
non si avvedevano che l'indebolimento dei fronte interventista democratico
poteva avere il solo risultato di rafforzare i gruppi nazionalisti e militaristi,
che già andavano organizzandosi con la complicità dei poteri
dello Stato. Nasceva il fascismo, che i repubblicani non ebbero esitazione
a condannare, malgrado il suo iniziale "tendenzialismo repubblicano".
La lotta tra repubblicani e fascisti si colorò ben presto di toni
drammatici. Bande fasciste, dopo aver devastato, alla fine dei 1920, la
sezione di Gorizia, attaccarono il 14 luglio 1921 la sezione di Treviso,
che fu distrutta dopo un breve ma duro combattimento. I repubblicani furono
costretti a difendersi dagli attacchi quotidiani dei fascisti e dei nazionalisti,
ormai lanciati alla conquista dei Paese. l'Italia si vide calata in una
contesa che si presentava quanto mai difficile per tutta la sinistra.
Ci si è spesso domandati, in tutti questi anni, come mai il fascismo
sia riuscito ad avere partita vinta pur disponendo, almeno fino al 1921,
di forze relativamente ridotte. Ora, se è vero che il fascismo
potè contare sulla complicità attiva dei poteri dello Stato,
è altrettanto vero che la sinistra si apprestò allo scontro
con il fascismo in condizioni di disarmo morale a causa dell'errore storico
commesso dai socialisti con il loro ostinato rifiuto di riconoscere i
valori della democrazia cosiddetta borghese. Con una tradizione politica
e culturale di questo tipo era dunque prevedibile che la lotta contro
il fascismo, che era sì anche una lotta di classi, ma era innanzitutto
una lotta di libertà, avesse delle probabilità di riuscita
assai modeste. Se poi si considera che nemmeno dopo l'assassinio di Giacomo
Matteotti la sinistra fu capace di imprimere alla sua azione contenuti
drammatici e rivoluzionari, quale solo una decisa lotta antimonarchica
avrebbe potuto dare, si può spiegare come mai l'Aventino abbia
fallito i tutti i suoi obiettivi e non sia riuscito a suscitare un solo
fremito di ribellione nelle masse popolari, alle quali, evidentemente,
non era possibile chiedere di battersi e di morire in nome di ideali per
tanti anni derisi.
Il
Pri contro il fascismo
Dopo
la marcia su Roma i repubblicani cercarono di favorire la formazione di
movimenti che in qualche modo potessero rimediare alla rigidità
e alla pesantezza degli schemi secondo i quali nel dopoguerra si erano
mossi quasi tutti i partiti politici. Così, mentre Oliviero Zuccarini
tentava di fare della sua rivista, La Critica Politica, il punto di aggregazione
di tutte le forze autonomistiche, Randolfo Pacciardi fondava la associazione
combattentistica Italia Libera, alla quale aderì la parte migliore
e più decisa dell'antifascismo militante, da Carlo Rosselli a Ernesto
Rossi, e che sarà una delle prime organizzazioni antifasciste a
subire i rigori della linea dura lanciata da Mussolini con il discorso
dei 3 gennaio 1925. In questi anni l'obiettivo dei Pri fu quello di unire
attorno al tema delle libertà del Paese forze e settori che si
richiamavano ai princìpi dei liberalismo. Ai repubblicani non sfuggiva,
infatti, che la battaglia contro il fascismo poteva essere vinta solo
se i partiti della democrazia fossero riusciti a ricuperare terreno presso
quei settori della società - i combattenti e il ceto medio - che
si erano lasciati attrarre dal fascismo anche a causa dell'ostinazione
con cui i massimalisti avevano rifiutato la riconciliazione tra neutralisti
e interventisti. Ma anche in questo caso lo sforzo dei repubblicani era
uno sforzo disperato, che doveva fare i conti con un liberalismo nettamente
conservatore, che aveva sì esaltato i valori della libertà
ma, sottovalutando il dato istituzionale, si era chiuso nell'astrattezza,
non aveva saputo allargare i propri orizzonti ad una concezione attiva
e dinamica delle libertà, né era stato in grado di riconoscere
il vincolo solidale che tutte le unisce, sia quelle economiche, sia quelle
politiche. Questo spiega come mai solo alcuni settori, per altro marginali,
dei liberalismo, trovarono la forza e la capacità di opporsi al
fascismo, mentre altri, ben più consistenti, non solo votarono
la fiducia al primo governo Mussolini, ma aderirono addirittura al listone
fascista, in occasione delle elezioni dei 1924: quelle stesse elezioni
che si svolsero in un clima di violenza tale da indurre il Pri a sospendere
ogni attività di propaganda e che Giacomo Matteotti denuncerà
nel suo ultimo discorso parlamentare, poco prima di essere ucciso proprio
a causa di questa sua coraggiosa denuncia.
La
lotta alla dittatura
Fallito
anche l'ultimo tentativo fatto dai repubblicani nella seconda metà
dei 1925, dopo l'inevitabile sfaldamento dell'Aventino, allo scopo di
promuovere la formazione di una Concentrazione repubblicano - socialista,
per la cui realizzazione si batté anche Carlo Rosselli, il 30 ottobre
1926 il fascismo assestava alle forze di opposizione il colpo decisivo.
Tutti i partiti e tutti i giornali dell'opposizione furono soppressi.
Per sfuggire all'arresto numerosi militanti e dirigenti dei Pri furono
costretti a prendere la via dell'esilio, mentre non pochi erano i repubblicani
inviati al confino o arrestati per la loro attività antifascista.
Nella lotta contro il regime il Pri non si chiuse in se stesso, ma cercò
di stabilire le più larghe alleanze tra tutte le forze democratiche,
mostrandosi disponibile a rinunziare alla propria autonomia. I repubblicani
sentirono che la lotta per la riconquista della libertà non poteva
essere subordinata a interessi di parte. Sicché, proprio mentre
altri partiti si chiudevano nel settarismo più cieco che screditava
tutto l'antifascismo e rafforzava il regime, il Pri invitava i suoi iscritti
rimasti in Italia ad aderire al movimento di Giustizia e Libertà,
che nasce e si sviluppa come movimento di lotta grazie al contributo dei
militanti repubblicani, la cui presenza in numerose zone è senz'altro
prevalente. Nella primavera dei 1927 i repubblicani aderirono alla Concentrazione
Antifascista, anche se avvertivano i limiti di una organizzazione che
sembrava intenzionata a muoversi secondo gli schemi dell'Aventino. Di
qui la lotta costante perché la Concentrazione abbandonasse l'illusione
legalitaria, la speranza, cioè, che l'Italia potesse riconquistare
la propria libertà, non con le forze dei suo popolo, ma in virtù
dell'intervento della dinastia. Grazie a quell'idealismo pratico che li
ha sempre contraddistinti, i repubblicani, prima e meglio di ogni altra
forza politica, compresero che la lotta contro il fascismo era una lotta
che non sarebbe stata né breve né facile e andava condotta
anche a prezzo di sacrifici che potevano sembrare sproporzionati rispetto
agli obiettivi immediatamente raggiungibili. Tra il 1927 e il 1932 tutte,
o quasi tutte, le azioni di lotta contro il fascismo furono azioni portate
a termine col contributo determinante dei repubblicani. Ma i repubblicani
compresero anche che la lotta per la riconquista della libertà
era subordinata al consolidamento delle democrazie europee, quasi dovunque
minacciate da ricorrenti tentativi autoritari. Per sconfiggere il nazionalismo,
diventato il punto di coagulo di tutti gli autoritarismi, bisognava intensificare
l'impegno europeista; ed è così che il patto unitario stretto
con i repubblicani spagnoli nell'ottobre dei 1928 si conclude con l'impegno
di lavorare per la formazione degli Stati Uniti d'Europa, premessa indispensabile
di ogni più vasto ordinamento della vita internazionale dei popoli.
Gli anni dei fascismo non segnarono un arresto dei dibattito interno e
il Pri non mancò di interrogarsi sui problemi posti dalla nascita
della società industriale. La testimonianza di questo dibattito
ci viene da un documento approvato dalla sezione di Parigi nel 1931, dove
si legge: "Lo Stato moderno, con gli sviluppi formidabili della tecnica
produttiva, coi ritmo più celere della distribuzione dei consumi.
coi moltiplicarsi indefinito delle forme di attività dei singoli
e dei gruppi, non può restare assente dal gioco degli interessi
contrastanti. Quando si manifesta, come nei tempi moderni, con frequenza
preoccupante, il fenomeno dei gruppi economici che assumono proporzioni
gigantesche e minacciano di imporre la loro potenza plutocratica all'autorità
stessa degli Stati e che diventano pericoli per gli istituti della democrazia
e per la pace fra le nazioni, è chiaro che lo Stato deve essere
munito di ampi poteri di controllo, per impedire le possibili sopraffazioni
di queste forze particolari sui diritti e le libertà collettive".
Oggi
in Spagna, domani in Italia
Dei tre
partiti antifascisti che conservarono la propria struttura durante tutto
il ventennio, il Pri fu l'unico a non poter contare su appoggi di natura
internazionale. Ma proprio questo permise ai repubblicani di superare
la crisi esplosa negli "anni dei consenso". Fu grazie ad una completa
indipendenza da ogni condizionamento di carattere internazionale, che
gli esuli repubblicani poterono essere i primi a raccogliere l'appello
lanciato da Carlo Rosselli nell'estate dei 1936: "Oggi in lspagna, domani
in Italia!". Accorrendo in difesa della libertà della Spagna i
militanti repubblicani rinnovarono un'antica tradizione garibaldina e
resero onore al monito pronunciato da Eugenio Chiesa in punto di morte:
"Soprattutto pensate all'azione". Ma la loro partenza non avveniva esclusivamente
all'insegna di romantici impulsi emotivi. I repubblicani non accorrevano
verso la Spagna alla ricerca di una "bella morte". Aveva infatti questa
spontanea, non sollecitata risposta all'appello di Carlo Rosselli (con
il quale, pure, essi avevano avuto polemiche assai dure), un profondo
significato politico, giacché si accompagnava ad un ben più
cauto atteggiamento dei partiti di massa, che solo dopo la morte del leader
dei Pri Mario Angeloni si sarebbero decisi all'intervento. E proprio nel
momento in cui con la travolgente avanzata nazista più oscuro si
faceva l'orizzonte politico dell'Europa, si ricostruiva una solidarietà
di forze democratiche che non a caso vedeva in prima fila i repubblicani
e gli uomini di Giustizia e Libertà, un movimento che si richiamava,
al pari del Pri, ai princìpi della democrazia risorgimentale. Dei
resto una significativa conferma della centralità dei Pri nella
lotta contro il fascismo verrà proprio dai partiti di massa che
vorranno al comando dei Battaglione Garibaldi il repubblicano Pacciardi.
Con la guerra di Spagna l'Europa si avvicina alla seconda guerra mondiale.
Nel 1940 l'invasione nazista della Francia provocò la dispersione
dei gruppo dirigente repubblicano. I contatti, già tanto precari
e difficili, tra i diversi gruppi ancora operanti furono interrotti, e
i militanti repubblicani si trovarono ad affrontare la dura realtà
della guerra senza un centro operativo capace di unificare e dirigere
la loro volontà di riscossa democratica. Di conseguenza, attorno
al 1942, mentre in alcune regioni uomini delle vecchie e delle nuove generazioni
confluivano nel Partito d'Azione, che venne visto quasi come un prolungamento
di Giustizia e Llibertà e di un impegno unitario di cui per primi
proprio i repubblicani avevano avvertito l'esigenza, in altre zone la
base ritenne di non poter sacrificare l'autonomia politica del vecchio
partito della democrazia risorgimentale ad un esperimento, generoso e
suggestivo, ma destinato a cadere al momento della normalizzazione della
vita politica. Giovanni Conti e Oliviero Zuccarini furono con Cino Macrelli
i più decisi a sostenere questa seconda soluzione. La loro volontà
di ricostruire il Pri doveva dei resto trovare una prima conferma nelle
ambiguità che vennero a manifestarsi in seno al partiti antifascisti
dopo il Congresso di Bari dei gennaio 1944, che segnò il passaggio
della coalizione antifascista dalla tesi della decadenza della monarchia
a quella della tregua istituzionale, secondo una imposizione che veniva
dai governi alleati, nessuno escluso.
Dalla
Liberazione alla Repubblica
Dopo
la liberazione di Roma il Pri non ebbe altra strada se non quella di ribadire
la sua volontà di mantenersi estraneo al Comitato di Liberazione
Nazionale, ma riconfermò la sua attiva presenza nei Cln provinciali
delle zone occupate, nella convinzione che là dove si trattava
di combattere i nazifascisti i repubblicani dovevano essere elemento di
coesione e di unità. Tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945
i repubblicani dettero il loro pieno contributo alla lotta di liberazione
sia nelle brigate di Giustizia e Libertà sia nelle formazioni di
partito, le Brigate Mazzini. Nell'Italia liberata la politica dei Pri
si caratterizzò, invece, per una serrata denuncia dell'indirizzo
seguito dai governi dei Cln: una denuncia che non si fondava soltanto
sulla pregiudiziale repubblicana, ma traeva motivo dalla considerazione
secondo cui non aver interrotto la continuità dello Stato monarchico,
del quale era stata per di più mantenuta inalterata la struttura,
significava porre il Paese in una condizione non facile rispetto agli
Alleati che quella continuità avrebbero fatto valere sul tavolo
delle trattative di pace. L'uscita dal conflitto mondiale poneva al Paese
grandi e numerosi problemi. Il tessuto economico e sociale dell'Italia
era stato troppo a lungo dilacerato dagli anni di guerra, soprattutto
nel Nord, dove più cruento era stato lo scontro con le truppe nazifasciste,
e dove molte vie di comunicazione erano saltate e molte industrie distrutte.
La liberazione restituiva agli italiani, dopo venti anni di dittatura,
la libertà di decidere il proprio destino di popolo civile, ma
apriva interrogativi ai quali era difficile rispondere se prima non fosse
stato definito il problema istituzionale. La posizione intransigente e
radicale del Pri sulla questione istituzionale influì non poco
a smuovere gli altri partiti che tutti, tranne il Partito d'Azione, sia
pure con accenti e motivazioni diverse, si mostravano alquanto possibilisti
nei confronti della monarchia. Ma i repubblicani avevano posto sul tappeto
un problema fondamentale per il futuro del Paese, sul quale non erano
possibili compromessi. E questa linea essi mantennero sino al referendum,
rifiutando di partecipare a qualsiasi coalizione di governo, sostenendo
che monarchia e fascismo erano a tal punto inscindibili che, fino a quando
fosse stato in vita l'una sarebbe stato sempre presente l'altro. Avvicinandosi
il referendum istituzionale, i repubblicani, certi della scelta dei popolo
italiano, chiamarono le altre forze politiche a confrontarsi, fuori dei
dogmatismi ideologici, su quale Italia si dovesse costruire. Nel febbraio
del 1946 il Partito repubblicano dedicava i lavori dei suo congresso nazionale
all'esame di un Progetto di Costituzione repubblicana dello Stato, elaborato
da Giovanni Conti con la collaborazione di Tomaso Perassi durante l'occupazione
nazista. Il Progetto riaffermava la necessità di uscire dalle formulazioni
vaghe e generiche e indicava quali princìpi da porre a base dei
nuovo patto costituzionale: "un mutamento dei rapporti sociali che renda
possibile la moralizzazione della vita pubblica"; "la realizzazione dell'autogoverno
effettivo della nazione"; "una democrazia realizzata come organizzazione
di libertà locali e generali"; "il principio che la sovranità
risiede nel popolo degli italiani". Il 2 giugno 1946 è la Repubblica.
Il Partito repubblicano, che aveva guidato la battaglia per la Repubblica
portava alla Costituente 23 parlamentari; nell'autunno gli eletti della
lista della Concentrazione Democratico Repubblicana (nata dalla scissione
del Partito d'Azione), Ugo la Malfa e Ferruccio Parri, riconoscendo nel
Pri la forza politica che più di ogni altra rappresentava gli ideali
di intransigenza democratica che erano stati alla base della nascita dei
Partito d'Azione, entravano nel Partito repubblicano. Caduta la monarchia,
i repubblicani accettarono per la prima volta di partecipare al governo
della nazione assieme ai tre grandi partiti di massa: Cino Macrelli e
Cipriano Facchinetti dovevano rappresentarli nel secondo ministero De
Gasperi. La Costituente che deve elaborare la Carta fondamentale della
democrazia italiana trova in prima fila i repubblicani, gli unici che
già durante la Resistenza si siano posti il problema della costruzione
dei nuovo Stato democratico. La scelta tra repubblica presidenziale e
repubblica parlamentare avviene a favore di quest'ultima, quando l'Assemblea
approva un ordine dei giorno presentato dal repubblicano Perassi. La nascita
delle Regioni (che dovranno attendere oltre un ventennio per essere realizzate)
quale riaffermazione dei princìpi dell'autonomia e dei decentramento
contro lo Stato accentratore espressione dei regime monarchico e fascista,
è sostenuta vittoriosamente da Giovanni Conti e da Oliviero Zuccarini
contro lo stesso Partito comunista che allora si dichiarava contrario
alle autonomie
Gli
anni della ricostruzione
L'Italia
ha di fronte in quegli anni tutti i gravi problemi che derivano dalla
necessità di riassestare il sistema produttivo e di combattere
la crescente inflazione postbellica E' il repubblicano Ugo la Malfa che
sottopone all'attenzione della Assemblea Costituente i problemi della
politica economica e finanziaria secondo una linea di rigore che pone
in evidenza la necessità di lottare contro la disoccupazione e
di riattivare i meccanismi produttivi. Sono i repubblicani a chiedere
che gli aiuti del piano Marshall siano indirizzati verso gli investimenti
pubblici produttivi e per riequilibrare gli squilibri economici territoriali.
Le scelte dei repubblicani sono così sempre consequenziali alla
loro concezione della democrazia intesa come conquista quotidiana e crescita
collettiva, al di fuori di schematismi e di griglie ideologiche, proprie
di altri partiti che si sforzano di interpretare e misurare la realtà
entro canoni prefissati. Il Partito repubblicano si riallaccia in questo
modo alle battaglie e alle tradizioni più significative della democrazia
repubblicana dei Risorgimento. Vuole essere ed è il partito della
ragione. Quando la divisione dei mondo in due blocchi provoca la guerra
fredda e questa porta alla scelta di campo senza mezze misure, il Partito
comunista italiano riafferma la sua solidarietà e fratellanza con
il Paese che ha realizzato il socialismo, l'Unione Sovietica; a sua volta
il Partito socialista, che sente prevalere la scelta di classe, conferma
il Patto di unità d'azione che lo lega al Pci. Il Presidente dei
Consiglio, De Gasperi, forma un nuovo governo senza i comunisti e i socialisti,
che passano all'opposizione. L'unità nazionale è rotta.
Il Paese è ormai diviso in due schieramenti: centrismo e frontismo.
Il segretario dei Partito repubblicano, Pacciardi, scrive su La Voce Repubblicana:
"Il Paese si è polarizzato verso gli estremismi: comunismo e anticomunismo.
Noi ci rifiutiamo di dividere il mondo così e di lasciarci trascinare
su questo terreno. I repubblicani operano per tentare di ricucire una
frattura di cui avvertono tutti i pericoli per la democrazia italiana".
"Noi - scrive ancora Pacciardi - creeremo una forza di equilibrio, una
zona di ragione dove l'aria sarà irrespirabile per tutti i faziosi".
A rendere incolmabile l'abisso tra i due schieramenti intervenne la scissione
dei Partito socialista, con l'uscita dei gruppo raccolto attorno a Giuseppe
Saragat, che contava quasi sul 50 per cento del partito. Nasceva il Partito
socialdemocratico. Fu in questo quadro che il Partito repubblicano decise
di assicurare la propria partecipazione alla formula centrista. Il pericolo
di involuzioni dell'asse politico, provato dall'elezione dei sindaco di
Roma, Salvatore Rebecchini, avvenuta con i voti determinanti della destra,
l'impossibilità di avviare un qualsiasi discorso a sinistra, convinsero
i repubblicani a collaborare con la Democrazia cristiana, con il disegno
di spingere questo grosso partito, carico di contraddizioni e solcato
da forti tendenze conservatrici, verso obiettivi di progresso sociale.
I repubblicani entravano nel quarto governo De Gasperi con Randolfo Pacciardi,
Carlo Sforza e Cipriano Facchinetti. Questo governo arrivò alle
elezioni del 18 aprile 1948. L'accentuarsi delle frizioni internazionali
tra Est ed Ovest, determinato dal dramma dilacerante vissuto a Praga e
la presenza in Italia di un forte Partito comunista sempre più
saldamente legato al mito dei socialismo sovietico, sviarono l'attenzione
degli italiani: gli appelli dei Pri alla ragione, a non dividersi tra
comunisti e anticomunisti, caddero nel vuoto. La paura dell'orso sovietico
che poteva invadere il Paese da un momento all'altro era alimentata dalla
stessa Democrazia cristiana e dalle gerarchie cattoliche, sempre pronte
a cogliere l'occasione per spostare a destra la Dc. Anche molti democratici
si lasciarono prendere da questo spirito di crociata in attesa dell'ora
x che avrebbe salvato o perduto l'Italia. Il 18 aprile 1948 segnerà
a fondo il sistema politico italiano, creando quel bipartitismo imperfetto
che avrebbe caratterizzato tutta la vita della nostra Repubblica. I partiti
della democrazia laica furono pesantemente ridimensionati nel loro stesso
ruolo; la Democrazia cristiana aveva ottenuto la maggioranza assoluta.
Così alterati i rapporti di forza, non vi era altra alternativa
alla partecipazione al governo se non una sterile opposizione senza prospettive.
Ma i repubblicani, pur ridotti nella loro rappresentanza parlamentare,
seppero mantenere viva l'attenzione sul problemi reali dei Paese e sulle
loro soluzioni. Pur presenti in uno schieramento centrista, essi tentavano
di indicare lo spazio che si apriva ad una sinistra non velleitaria e
riformatrice. Era il richiamo alla ragione e al pragmatismo
Si
preannuncia la svolta lamalfiana
"La
considerazione dei problemi economici e finanziari - dirà Ugo la
Malfa nel 1949 - non può astrarre dal tempo cui essi si riferiscono,
e una politica che può apparire errata in una certa fase economica,
risulta giusta in un'altra e viceversa". Il Partito repubblicano si caratterizzava
in questi anni come il più tenace assertore di soluzioni pragmatiche
per affrontare i grossi nodi dei Paese e aiutarlo a liberarsi dagli stretti
vincoli delle vecchie strutture e delle anguste visioni ideologiche che
attanagliavano in una situazione irrazionale la società italiana.
Il Partito repubblicano non ha modelli preconfezionati da offrire, né
palingenesi da auspicare, la sua attenzione è rivolta verso quei
Paesi anglosassoni che in nome di una democrazia intesa come ragione,
vanno costruendo quella che più tardi verrà definita la
società dei benessere. Questo riferimento è essenziale per
comprendere tutta l'azione politica dei repubblicani, che, pur nei vari
aspetti, dalla politica economica a quella estera a quella delle Istituzioni,
può essere ricondotta a questo unico punto di partenza che è
l'appartenenza dell'italia all'Occidente democratico. Non si comprende
bene quanto è avvenuto negli anni dei centrismo senza aver presente
l'azione svolta dai repubblicani: la necessità di rivitalizzare
il nostro sistema agricolo, caratterizzato ancora dal latifondo, di sviluppare
un moderno sistema industriale, di aprirci all'Europa e costruire contemporaneamente
un nuovo Stato, imponevano scelte precise e improcrastinabili, alle quali
forze politiche e interessi economici rilevanti si opponevano. Ciò
nonostante il rigore dell'impostazione repubblicana fu decisivo per la
realizzazione di questi obiettivi riformatori che costituivano il nuovo
volto dell'italia industriale. Nel 1949 il Pri con l'impegno di La Malfa
pose alla Dc in termini alternativi la scelta per una moderna riforma
agraria che debellasse il latifondo parassitario esteso soprattutto nel
Mezzogiorno. Fu una battaglia non facile a fronte di una Democrazia cristiana
maggioritaria e nella quale molti erano gli interessi latifondistici,
e di un Partito liberale che si andava caratterizzando come forza conservatrice
e di destra. La Democrazia cristiana dovette accettare l'impostazione
repubblicana e il Partito liberale passò all'opposizione rimanendovi
per l'intera legislatura, contrastando tutte le principali realizzazioni:
riforma agraria, liberalizzazione degli scambi, Cassa per il Mezzogiorno.
Battaglie non facili da condurre in un quadro politico che vedeva i comunisti
e i socialisti pregiudizialmente ancorati al mito della rivoluzione socialista,
sostanzialmente indifferenti a quanto si poteva realizzare nel Paese;
i partiti della destra monarchica e fascista in crescente risalita; il
Partito liberale a difesa degli interessi più conservatori; la
Democrazia cristiana sempre sensibile ai richiami integralistici del Vaticano.
Pur in presenza di tante difficoltà, la riforma agraria, primo
decisivo passo verso la modernizzazione delle strutture economiche fu
realizzata; e nello stesso anno, nel 1950, fu creata la Cassa per il Mezzogiorno,
primo tentativo di dare centralità al problema dei Mezzogiorno
e alla soluzione dei suoi storici problemi attraverso un massiccio intervento
di capitale pubblico. L'esperienza alla quale il Partito repubblicano
guardava era quella della Tennessee Valley Authority che il governo democratico
di Roosevelt aveva realizzato nel quadro delle iniziative per uscire dalla
grande depressione. Non furono poche le opposizioni e i timori di quanti
non credevano e non volevano l'intervento dello Stato, fermi ad una concezione
ottocentesca dello Stato liberale. A questi i repubblicani contrapponevano
una concezione moderna dell'economia che doveva fare i conti con i problemi
endemici rappresentati da gravi squilibri territoriali. "Voi volete trasformare
il Mezzogiorno col liberalismo economico, con la libertà economica?
- dirà Ugo la Malfa - Ma cosa volete che la libera iniziativa possa
creare nel Mezzogiorno quando gli elementi strutturali e fondamentali,
dalle case alle bonifiche, dall'acqua alle fognature, ai mezzi di comunicazione
non vi sono?". Erano le premesse di quella politica di programmazione
che i repubblicani porranno a base della svolta di centrosinistra e che
riproporranno negli anni dell'emergenza come unica via per uscire dall'inflazione
e ridare vigore al sistema economico. Ma il provvedimento sul quale più
si accanirono i ceti conservatori fu la liberalizzazione degli scambi.
Gli industriali temevano che l'apertura delle frontiere avrebbe colpito
a morte l'industria nazionale e si sentivano più sicuri dietro
i vecchi schemi corporativi. La stessa Confederazione Generale del Lavoro,
temendo per l'occupazione, si schierò contro. Ma la posizione dei
repubblicani e di Ugo la Malfa, che ricopriva l'incarico di ministro del
Commercio con l'estero, prevalse sulle opposizioni e sulle titubanze.
Nell'agosto del 1951 l'Italia, prima in Europa, si apriva all'Europa.
"Fui mosso da due convincimenti - dirà più tardi La Malfa
- La visione meridionalista, ossia l'idea di stimolare con la concorrenza
il sistema economico, favorendo il Mezzogiorno, e l'intuizione della capacità
nazionale di andare sui mercati, della possibilità di dare finalmente
respiro, sprigionare energie compresse". Erano così fissate quelle
riforme che assicureranno la nascita di un'Italia industriale e che porteranno
agli anni dei boom economico. L'economia italiana iniziava a progredire
grazie a interventi legislativi riformatori che le forze moderate tenacemente
avevano osteggiato. Parallelamente alla nuova impostazione di politica
economica, che i repubblicani cercavano di assicurare al Paese, marciava
l'impegno per dare all'Italia una politica estera democratica; al repubblicano
Carlo Sforza, ministro degli Esteri, si deve la grande vittoriosa battaglia
per porre il Paese al fianco delle nazioni dell'Occidente democratico.
Per portare l'Italia nell'Alleanza Atlantica fu necessario vincere le
numerose titubanze che emergevano nell'ambito della stessa Democrazia
cristiana, sulla quale premevano le gerarchie vaticane, propense ad attribuire
al nostro Paese un destino di neutralità. Un'Italia non allineata,
inevitabilmente destinata a subire un progressivo distacco dalle democrazie
dell'Occidente era l'aspirazione di molti cattolici ed era, nello stesso
tempo, l'obiettivo del socialcomunismo. Ma De Gasperi condivise la scelta
occidentale dei repubblicani, di Sforza e di La Malfa: l'Italia entrò
nella Nato, una alleanza militare difensiva che i democratici interpretarono
sempre come premessa per la realizzazione dell'Unità europea, bene
supremo che avrebbe garantito la pace. Lo stesso Sforza portò l'Italia
ad aderire al nascente Consiglio d'Europa. La prima legislatura repubblicana
portava così impresso il segno dei Partito repubblicano, che da
una posizione di minoranza aveva indicato la via da percorrere per assicurare
il progresso dei Paese. Ma la Democrazia cristiana rimaneva il partito
della maggioranza assoluta, mentre la protesta qualunquistica e corporativa
ingigantiva la destra monarchica e fascista che nuovamente assurgeva al
ruolo di protagonista. Sul fronte dell'estrema sinistra proseguiva l'opposizione
dei socialisti e comunisti in attesa dei fatidico evento della rivoluzione.
In questa situazione i repubblicani, consapevoli dei pericoli reali per
le sorti dello Stato democratico che venivano dalla possibilità
di uno scivolamento reazionario dell'asse politico, grazie alle crescenti
lusinghe dei partiti di destra nei confronti della Dc, proposero una Costituente
programmatica che unisse tutti i partiti laici. L'idea non fu accolta.
Si pensò allora ad una modifica della legge elettorale che assicurasse
ai partiti "apparentati" un premio di maggioranza nel caso in cui avessero
ottenuto il 51 per cento dei voti. La legge fu definita dall'estrema sinistra
un provvedimento liberticida e si coniò il termine di "legge truffa".
Anche l'estrema destra monarchica e fascista si oppose con furore alla
legge. I repubblicani l'accettarono, ben sapendo che non si trattava di
dare alla Democrazia cristiana una maggioranza che già aveva, quanto
di legarla con vincoli maggiori ai partiti laici, così da bloccare
quelle possibili involuzioni sulla destra che l'operazione Sturzo, il
tentativo cioè di costituire nel Comune di Roma una maggioranza
di centrodestra, sventato dalla ferma azione della segreteria dei Pri,
affidata ad Oronzo Reale, aveva lasciato intravvedere. La legge fu approvata,
ma nelle elezioni politiche dei 1953 il quorurn richiesto non scattò.
Con quelle elezioni si chiudeva un ciclo politico. Iniziava il lento cammino
per allargare l'area della partecipazione democratica alla ricerca di
nuove forze che potessero contribuire a dare maggiore vigore al processo
di trasformazione della società italiana.
Gli
anni del centrosinistra e la crisi delle speranze riformatrici
Gli anni
della seconda legislatura repubblicana vedono questo sforzo dei repubblicani
teso a cogliere ogni occasione per stimolare nell'estrema sinistra socialista
e comunista una revisione politica ed ideologica che consenta di uscire
dal ghetto nel quale si erano relegate, ma sono anche gli anni nei quali
essi si pongono il problema di come garantire, e con quali strumenti,
un più accelerato ritmo di sviluppo ed una maggiore soddisfazione
delle esigenze sociali di una moderna democrazia. E' costante il loro
richiamo ad aver presenti i dati della realtà italiana ed una visione
globale dei suoi problemi. Su questo terreno il Pri chiede ai sindacati
di verificare le loro azioni rivendicative. Il sindacato doveva avere
il coraggio di impostare i problemi generali e di chiamare i lavoratori
ad assumere le loro responsabilità nel quadro dei programmi generali.
Programmazione e politica dei redditi sono i contenuti di una politica
riformatrice che i repubblicani additano alle forze politiche e sociali
già nella prima metà degli anni ‘50. Il XX Congresso dei
Pcus nel 1956, incrinando il mito staliniano e rivelando la realtà
dei socialismo sovietico, apre le speranze alla possibilità che
la sinistra socialista e comunista in Italia riveda finalmente le proprie
posizioni. I repubblicani avevano più volte sottolineato come l'impedimento
alla creazione di una forte sinistra democratica nascesse dalla presenza
degli stretti legami internazionali che i partiti dell'estrema mantenevano
con l'Unione Sovietica. "Il comunismo - dirà La Malfa - in un Paese
di civiltà occidentale è concezione astratta di per se stessa.
Esso pone i problemi della trasformazione sociale e politica in termini
che non avranno mai possibilità di attuazione in tali Paesi". Contemporaneamente
il Partito liberale, arroccato sempre più su posizioni conservatrici,
subisce una scissione che porta alla nascita dei Partito radicale. E'
il Partito radicale di Mario Pannunzio, direttore de Il Mondo, di Ernesto
Rossi, di Francesco Compagna, Vittorio De Caprariis, Mario Paggi. La nascita
di questa nuova formazione viene salutata con simpatia dai repubblicani
che vedono allargarsi l'area di democrazia laica progressista. Radicali
e repubblicani affrontano insieme l'analisi dei principali nodi dei Paese,
economici, istituzionali e di costume, indicando risposte all'insegna
della ragione, contestando sempre le fughe illusorie nell'utopia. Sono
quelle indicazioni e la ferma volontà di perseguirle in un chiaro
disegno politico, che caratterizzano la presenza repubblicana. Ma l'allargamento
della partecipazione democratica, se è premessa indispensabile
per un grande disegno riformatore, non può non marciare contemporaneamente
al conseguimento di nuove tappe verso il grande obiettivo dell'unificazione
europea. L'importanza che le attribuiscono i repubblicani è fondamentale.
L'insegnamento di Mazzini e degli uomini più avanzati della democrazia
risorgimentale viene portato avanti con tenacia. I repubblicani sono in
prima linea con Randolfo Pacciardi a sostenere, d'intesa con il Movimento
federalista europeo di Altiero Spinelli, la nascita della Comunità
Europea di Difesa, progetto non realizzato a causa dell'opposizione della
Francia. La seconda legislatura repubblicana si avviava così alla
fine, e il Partito repubblicano, verificata la convergente impostazione
con il Partito radicale, decideva di presentare liste in comune. Nel novembre
dello stesso anno il Pri si riunisce a Firenze per il XXVI Congresso Nazionale,
che sancisce nel documento finale la necessità per il Paese di
perseguire la ricerca di nuove formule politiche. Nel frattempo, il distacco
del Partito socialista dal Pci diviene sempre più marcato e Pietro
Nenni contribuisce a riportare il suo partito su posizioni riformistiche,
le uniche che abbiano possibilità di mutare il volto dei Paese.
L'allargamento dell'area democratica per il quale i repubblicani si battono
con tenacia, rischia di essere compromesso nel 1960, con la costituzione
dei governo Tambroni, che proprio mentre il neofascisrno riprende vigore,
tenta di allargare la scissione tra Paese reale e Parlamento, presentandosi
come governo forte della nazione. La reazione popolare è immediata
e l'Italia si ritrova in un clima di guerra civile, con il pericolo di
una "irrefrenabile radicalizzazione dello lotta politica ", come la definì
il segretario dei partito Oronzo Reale. In questo clima il Partito repubblicano
si batte con decisione per bloccare il processo di degenerazione in atto,
e la sua iniziativa, in un momento di straordinaria tensione e di generale
smarrimento, fa sì che la crisi venga superata con la costituzione
di un monocolore Dc che ottiene la maggioranza, grazie al voto favorevole
dei partiti laici e all'astensione dei Partito socialista. Il ritorno
a condizioni di normalità permette al Pri di riprendere l'iniziativa
per la costituzione del centrosinistra. Nell'autunno dei 1960 il XXVII
congresso Nazionale del Pri a Bologna dichiara esaurita la formula centrista.
Si arriva così alla costituzione di quel primo centrosinistra nel
1962, con Ugo La Malfa ministro dei Bilancio. Il terreno sul quale si
gioca la svolta politica è quello economico, dove i repubblicani
cercano di trarre le conclusioni di quanto avevano prospettato negli anni
precedenti. Nasce la programmazione. Nel 1962 la Malfa presenta al Parlamento
e al Paese la Nota aggiuntiva al bilancio dello Stato e indica nella collaborazione
di tutte le forze sociali intorno ad obiettivi prioritari quali il Mezzogiorno
e la piena occupazione, lo strumento indispensabile per assicurare continuità
a quello sviluppo economico del quale si intravvede l'esaurimento; i repubblicani
chiedevano l'impegno dei sindacati intorno al tavolo della programmazione.
Prima realizzazione di quel governo fu la nazionalizzazione dell'energia
elettrica che avrebbe dovuto garantire soprattutto nel Mezzogiorno la
disponibilità di energia necessaria al suo sviluppo. Ma l'incomprensione
e l'immaturità dei mondo imprenditoriale e del lavoro decretarono
il fallimento della politica di piano. La Confindustria temeva il soffocamento
dell'iniziativa privata, i sindacati la limitazione della loro libertà
di azione. La spinta riformatrice che i repubblicani avrebbero voluto
imprimere al centrosinistra, veniva così bloccata da queste tensioni.
L'economia italiana si avviava verso una fase critica, mentre si allargava
la spesa pubblica corrente a danno degli investimenti produttivi. Nel
1967, in occasione della crisi di governo il Pri poneva quali punti irrinunciabili:
il contenimento della spesa pubblica corrente per garantire le finalità
della programmazione; l'avvio concreto della riforma dello Stato e delle
strutture autonomistiche, nel cui quadro inserire l'attuazione regionale;
il problema delle priorità. Temi sui quali i repubblicani si batteranno
con tenacia negli anni successivi, rimanendo pressoché inascoltati.
Le insufficienze dei centrosinistra, la mancanza di una visione globale
dei problemi dei Paese, erano il principale oggetto della loro attenzione.
La stagione contrattuale del 1969, sull'onda delle agitazioni studentesche
e dell'autunno caldo, fece saltare qualsiasi ipotesi di programmazione.
La stabilità, ancora precaria, dei sistema economico italiano,
caratterizzato dalla presenza di una vasta fascia di disoccupazione, alla
quale si aggiungerà pochi anni più tardi l'aumento dei costi
energetici a seguito della crisi petrolifera, fu compromessa, e l'Italia
si trovò in una condizione di crisi crescente che dal piano economico
si spostò sempre più sul piano sociale e istituzionale.
Il Partito Repubblicano intravvedendo tutti questi pericoli, richiamò
l'attenzione delle forze politiche sulla necessità di considerare
contemporaneamente i problemi dell'economia e i problemi dello Stato.
"Lo Stato - dirà La Malfa - non è per noi il meccanismo
di potere che bisogna conquistare, ma è una organizzazione al servizio
dei cittadini, che si deve servire con umiltà e disinteresse, mettendolo
al di sopra di qualsiasi ragione di parte. Nella concezione repubblicana
lo Stato, come organizzazione di interessi collettivi, deve sovrastare,
e noi non dobbiamo, in alcun caso, sovrastare lo Stato e le sue ragioni".
In questa linea il Pri si batte perché leggi civili e moderne siano
realizzate: la legge istitutiva del divorzio porta la firma dei ministro
della Giustizia, il repubblicano Oronzo Reale, e una legge, fondamentale
per uno Stato moderno, come quella della riforma tributaria, porta la
firma dei repubblicano Bruno Visentini. In questa linea il Pri, partito
storico delle autonomie, si astiene nel voto per l'istituzione delle Regioni,
nel 1970, perché queste non si inserivano in un quadro generale
di riforma dell'assetto istituzionale, come dimostrava il rifiuto di accettare
la proposta repubblicana di sopprimere, contestualmente al nascere delle
Regioni, i consigli provinciali, limitati ormai nei poteri e nelle funzioni.
L'aggravamento della situazione economica spinge i repubblicani a chiedere
la presentazione in Parlamento di un Libro bianco sulla spesa pubblica
e, nel 1971, essi denunciano la presenza di un sistema di strutture pubbliche
costoso e inefficiente. - "Quando un sistema di strutture pubbliche -
dirà La Malfa alla Camera - diventa parassitario, il costo di questo
parassitismo cade sulla classe operaia e sul sistema direttamente produttivo"
Le condizioni di crescente e inarrestabile crisi dell'intera economia
italiana destano nei repubblicani la preoccupazione che l'Italia possa
uscire dal novero dei Paesi occidentali e "sprofondare nel Mediterraneo".
Il problema principale diviene rapidamente quello della stessa sopravvivenza
dei nostro sistema.
La
crisi dello Stato e l'emergenza
Esaurita
ormai da tempo l'esperienza di centrosinistra, i repubblicani indicano
quale unica via di salvezza un accordo di emergenza fra tutte le forze
politiche e sindacali, che consenta di bloccare il processo di degenerazione
che investe ormai tutte le strutture economiche, sociali e istituzionali.
Il disavanzo pubblico si allarga sempre più, raggiungendo i 14mila
miliardi di deficit nel 1975 e i 25mila nel 1978, mentre l'inflazione
cresce ad un tasso elevatissino e il settore pubblico, dall'Eni, all'Iri,
all'Egam, si trasforma in un pozzo di passività senza fondo che
ingoia tra deviazioni e degenerazioni centinaia di miliardi. Il Paese
è alla "Caporetto economica" come denuncia La Malfa, mentre si
profila una Caporetto morale con la crisi delle stesse istituzioni e dei
valori che sorreggono ogni convivenza sociale. La democrazia italiana
appare inerme di fronte all'attacco di un terrorismo dilagante che colpisce
con spavalda sicurezza ogni elemento vitale dello Stato. I repubblicani
denunciano la situazione - frutto di crisi ricorrenti e sempre più
gravi - e il rischio che ci si avvìi verso una spirale degenerativa.
La gravità è tale da richiedere misure eccezionali, di qui
il richiamo dei repubblicani all'emergenza, con il contributo di tutte
le forze politiche e sociali. Ma emergenza significa programmazione e
scelte prioritarie, responsabilità e rigore; emergenza significa
anche consolidare la permanenza dell'Italia nel sistema economico a fianco
delle democrazie occidentali. In questa prospettiva i repubblicani pongono
la premessa per una politica di rigore che, attraverso il rilancio della
programmazione riduca la spesa pubblica controllando il processo inflattivo.
L'adesione dell'Italia al Sistema Monetario Europeo è in questa
linea una tappa importante e una battaglia che i repubblicani conducono
sino in fondo, tra le oscillazioni e i tentennamenti di tutti gli altri
partiti. "Chi voglia spiegarsi - dirà la Malfa - perché
il Pri si è battuto per l'ingresso immediato dell'Italia nel Sistema
Monetario Europeo, e ha minacciato di ritirarsi dalla maggioranza, ove
ciò non fosse avvenuto, deve considerare l'importanza che il Pri
ha annesso a questo confronto, perché si arrivi a una valutazione
comune dei problemi e dell'atteggiamento da assumere verso il modo capitalistico
di produzione, in vista di dargli la maggiore produttività ed efficienza.
L'aggancio dell'Italia allo Sme non ha avuto il carattere della ricerca
di un vincolo esterno, di un rigore di politica economica e monetaria,
impostoci da altri Stati. Ha avuto bensì il carattere di un vincolo
comunitario, cioè di un vincolo che noi stessi, partecipi della
Comunità europea abbiamo accettato e ci siamo creato". Il richiamo
dei repubblicani al rigore e alla ragione prosegue. Ed è così
che nei primi mesi dei 1979, il Capo dello Stato affida a Ugo La Malfa
l'incarico di formare il nuovo governo. Il tentativo non riesce, e il
21 marzo viene varato il governo Andreotti, del quale la Malfa è
vicepresidente. Cinque giorni dopo, l'uomo che aveva così grandemente
contribuito al pensiero e all'azione dei repubblicani, e naturalmente
al progresso dell'Italia tutta per oltre un trentennio, scompare colto
da un male improvviso. Nel settembre dello stesso anno, il Pri elegge
Bruno Visentini presidente e Giovanni Spadolini segretario del partito.
Spadolini nel suo intervento potrà affermare: "Nessuna pregiudiziale
per il futuro, amici, ma soprattutto pregiudiziali contro qualunque pregiudiziale,
perché questo che è il partito della ragione, non può
avere pregiudiziali".
Giorgio
La Malfa segretario
Nonostante il periodo
di stabilità di cui fruiscono i governi Craxi, restano inalterati,
anzi tendono ad aggravarsi, gli squilibri di fondo che caratterizzano
la società italiana, soprattutto nel divario di condizioni tra
Nord e Sud del Paese. Si può dire che tali anni rappresentano un'altra
occasione storica mancata per incidere sui fattori strutturali che continuano
a rendere costantemente precaria la situazione italiana. La diminuzione
del prezzo del petrolio e della quotazione del dollaro non viene sfruttata
per affrontare un piano di rientro dall'indebitamento pubblico, sollecitato
inutilmente dai repubblicani. La spesa pubblica appare come una sorta
di "variabile incontrollata".
All'indomani delle
elezioni del 14 giugno 1987, Giovanni Spadolini, dopo aver guidato
per nove anni il Pri, viene eletto alla carica di presidente del Senato,
ulteriore dimostrazione del ruolo centrale che i repubblicani svolgono
nella vita politica, un ruolo che va ben al di là di quanto potrebbe
comportare un puro calcolo di consistenza numerica. Il 12 settembre dello
stesso anno il Consiglio nazionale elegge quasi all'unanimità,
a scrutinio segreto, Giorgio La Malfa segretario politico del Pri. "Noi
- dichiara La Malfa nel suo primo intervento dopo la sua elezione - consideriamo
nostro compito vedere più avanti, proporre soluzioni anticipatrici,
ascoltare le voci della società, del suo mondo intellettuale e
produttivo, in uno sforzo di rendere uniforme lo sviluppo del Paese e
più giusta la distribuzione dei redditi e delle possibilità
all'interno di esso".
I repubblicani non
si tirano indietro di fronte alle loro responsabilità e partecipano
al nuovo governo Andreotti, assumendo tre importanti ministeri: Riforme
istituzionali, con Antonio Maccanico, Industria, con Adolfo Battaglia,
poste e telecomunicazioni con Oscar Mammì.
Nel maggio del 1989 si svolgono a Rimini i lavori del XXXVII Congresso
nazionale repubblicano, al termine del quale La Malfa è riconfermato
alla segreteria e Bruno Visentini alla presidenza. E' un congresso di
grande importanza per i repubblicani, che ha per tema "Gli anni Ô90 che
vogliamo". Il congresso conferma l'originalità e la peculiarità
del Pri, il suo essere espressione diretta della tradizione politica democratica,
portatore di una cultura economica moderna, sostenitore di una pubblica
amministrazione che risponda non ad esigenze di assistenzialismo ma ad
una domanda di efficienza e di corretto funzionamento più aderente
ai bisogni dei cittadini. Ha una ferma visione della laicità e
sovranità dello Stato. E' portatore di una linea politica estera
chiara e costante che vuole l'Italia integrata nell'Europa e nell'Occidente
senza esitazioni o cedimenti. Con queste premesse programmatiche e ideali
il congresso di Rimini decide di presentare alle elezioni europee liste
comuni con il partito liberale e il partito radicale.
Nel luglio dello stesso
anno il partito repubblicano, in occasione della formazione del nuovo
governo guidato da Andreotti sostiene che "non essendo numericamente
determinante si riserva "un'ultima volta" di sostenere un governo
fondato sull'alleanza tra DC e PSI.
Nel gennaio del 1990,
pur approvando l'adesione del governo alla banda stretta dello SME, i
repubblicani rilevano che occorre costruire le condizioni adeguate di
politica economica e finanziaria e criticano fermamente il provvedimento
di legge sugli extracomunitari.
Nell'aprile dello
stesso anno con la formazione del VII governo Andreotti, il Pri si dissocia
dalla maggioranza e passa all'opposizione.
La
crisi della Repubblica
Mentre gli anni '80
si erano chiusi con il crollo dei regimi dell'Est, che si richiamavano
ai miti e alle dottrine del socialismo reale, una sorta di vittoria di
Mazzini su Marx, come ha notato Sergio Romano, gli anni '90 sono stati
gli anni della grande crisi della Repubblica, travolta dal ciclone giudiziario
di Tangentopoli, che ha provocato in breve tempo la dissoluzione di quasi
tutti i partiti italiani e in particolare delle forze politiche che avevano
guidato la rinascita dell'Italia dal dopoguerra.
La grande trasformazione
internazionale e una serie di cambiamenti, a cominciare dalla legge elettorale
maggioritaria per il Parlamento, per continuare con le inchieste della
magistratura, incidono profondamente sul sistema politico italiano, senza,
tuttavia, garantire né un nuovo fondamento costituzionale - giacché
falliscono tutti i tentativi di revisione della Costituzione - né
un nuovo equilibrio politico.
Nel febbraio del 1992
il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, in polemica con il
Parlamento decide lo scioglimento anticipato della Camere. Le elezioni
(aprile) registrano una flessione di tutti i partiti di governo e del
Pds (erede del vecchio partito comunista) e l'affermazione della Lega
che, soprattutto nel nord, raggiunge percentuali elevate. Il partito repubblicano
ottiene il 4,4% alla Camera e il 4,7% al Senato.
Poco
dopo, Cossiga si dimette, dopo aver polemizzato con il consiglio superiore
della Magistratura ed i vertici militari. Nella nuova elezione del capo
dello Stato i repubblicani sostengono sino alla fine la candidatura di
Leo Valiani contro quella di Oscar Luigi Scalfaro.
Nel mese di giugno
'92 si costituisce il nuovo governo presieduto da Giuliano Amato, ma i
repubblicani decidono di nono votargli la fiducia, riservandosi di valutare
l'azione del governo sui singoli provvedimenti.
In ottobre nasce una
nuova formazione politica, Alleanza Democratica, promossa dallo stesso
PRI, con lo scopo di accelerare il cammino delle riforme istituzionali.
Nel mese di
novembre si svolge a Carrara il XXXVIII congresso del partito repubblicano.
Nella sua relazione, Giorgio La Malfa mette in luce come a fronte della
crisi dell'intero sistema politico occorra "costruire un nuovo equilibrio
politico che sia espressione di un rinnovamento delle idee, degli uomini
e degli schieramenti politici". "Per queste ragioni Ðsosterrà
La Malfa- la questione è insieme istituzionale e politica".
In questa prospettiva, i repubblicani, portatori da sempre delle istanze
autonomistiche, si dichiarano favorevoli ad un più ricca articolazione
decentralizzata dello Stato.
Ma, per affrontare
con efficacia la grande crisi politico-istituzionale dell'Italia, i repubblicani
propongono la realizzazione di un governo temporaneo svincolato dai partiti,
sostenuto da un'ampia maggioranza, dalla Lega sino al Pds, con l'ingresso
nell'esecutivo dei capigruppo parlamentari, per impegnarsi in una azione
dura di risanamento economico e finanziario. Contestualmente i gruppi
parlamentari dovrebbero concentrarsi nella realizzazione delle necessarie
riforme elettorali e costituzionali.
I repubblicani
si interrogano anche sulla necessità o meno di partecipare alla
realizzazione di nuove aggregazioni partitiche nella prospettiva di una
semplificazione del quadro politico. Nel dibattito che si apre tra tutti
i repubblicani Il segretario La Malfa si esprime in termini prudenti,
non escludendo la possibilità di dare vita ad rassemblement
sul tipo dell' UDF in Francia, che negli anni '60 aveva rappresentato
il terreno di incontro tra cattolici, liberali, repubblicani e radicali
di destra.
Nel
Consiglio nazionale del 4 dicembre Giorgio La Malfa è rieletto
segretario del partito, mentre i repubblicani chiedono le dimissioni del
governo Amato.
Ad aprile del 1993
il governo Amato si dimette e il 28 aprile si insedia il nuovo governo
presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, che durerà sino al gennaio
dell'anno successivo. Nello stesso mese di aprile un referendum sulla
legge elettorale decreta una larga scelta popolare a favore del sistema
maggioritario e nel gennaio dell'anno successivo il Presidente della Repubblica
decide di sciogliere anticipatamente le Camere.
Gli
anni dell'alternanza
Nel marzo del 1994
si svolgono le elezioni politiche con il nuovo sistema elettorale
maggioritario. Si confrontano tre schieramenti, uno di centrodestra, guidato
dalla nuova formazione politica, Forza Italia, fondata da Silvio Berlusconi,
uno di centrosinistra e un terzo, il Patto per l'Italia, che vede riuniti
il partito popolare, il patto per l'Italia, guidato da Mario Segni e il
partito repubblicano. Il programma di questo schieramento prevede una
riduzione della pressione fiscale, la riforma del sistema pensionistico,
la regolamentazione dei flussi di lavoratori extracomunitari, la creazione
di un sistema federalista basato sul criterio della sussidiarietà.
Il risultato elettorale
è deludente. Gli italiani preferiscono dividersi tra i due schieramenti
estremi, penalizzando quello di centro. Con la vittoria della Casa delle
Libertà assume la guida del governo il leader del centrodestra,
Berlusconi, che resta in carica sino a dicembre, quando l'uscita dalla
maggioranza della Lega ne determina la caduta.
Preso atto della impossibilità
di dare vita ad una alternativa centrista, il partito repubblicano, così
come lo stesso partito popolare, decide di avvicinarsi alle forze di centrosinistra
con l'intendimento di creare uno schieramento di unità nazionale
che sappia affrontare i problemi del paese.
Nel gennaio del 1995,
anziché sciogliere le Camere, Scalfaro affida la guida del nuovo
governo a Lamberto Dini (gennaio '95- gennaio '96), che era stato ministro
del tesoro nel precedente governo Berlusconi. Il repubblicano Guglielmo
Negri viene chiamato a ricoprire l'incarico di sottosegretario alla Presidenza
per i rapporti con il parlamento.
A marzo dello stesso
anno si svolgono a Roma i lavori del XXXIX congresso del partito repubblicano,
che confermano le motivazioni della scelta di schieramento come unità
nazionale e pongono al centro dell'azione politica, nella generale indifferenza
delle altre forze, il problema europeo, ovvero della necessità
di uno sforzo straordinario per colmare la distanza dell'Italia rispetto
alle condizioni poste dal trattato di Maastricht. A conclusione del congresso
Giorgio La Malfa è riieletto segretario nazionale, mentre Guglielmo
Negri assume la presidenza del partito.
A conferma delle scelte
congressuali, in occasione delle elezioni politiche, ancora una volta
anticipate, che si svolgono a maggio del 1996, il Pri decide di
presentarsi nell'alleanza di centro-sinistra e nella quota proporzionale
con il partito popolare. Condizione pregiudiziale per i repubblicani è
la politica europea e l'ingresso dell'Italia nell'euro.
L'alleanza di centro-sinistra
vince le elezioni grazie anche ad un accordo di desistenza con Rifondazione
Comunista e si costituisce il governo Prodi (maggio '96- ottobre '98).
I repubblicani impongono l'adesione dell'Italia all'euro, nonostante la
tiepidezza del presidente del consiglio. Ma la vita del governo è
stentata proprio per la contraddizione dovuta ai continui veti di Rifondazione.
Il tentativo di riformare lo stato sociale e di porre mano alle sue opportune
riforme viene bloccato da Bertinotti, mentre sul piano della politica
estera l'intervento italiano in Albania, fermamente avversato dai partiti
di estrema sinistra, è reso possibile dal voto favorevole del centrodestra.
Finchè nell'ottobre del 1998 il ritiro della fiducia da
parte di Rifondazione comunista porrà fine al governo Prodi, vittima
delle indissolubili contraddizioni della sua maggioranza.
Nel mese di novembre,
grazie al contributo di voti di una nuova formazione politica, l'UDR,
guidata da Francesco Cossiga, nasce il governo D'Alema (novembre '98-
dicembre '99). I repubblicani non vi partecipano e nel voto di fiducia
si astengono.
Nel mese di aprile
1999 si svolgono a Roma i lavori del XL Congresso nazionale. Nella sua
relazione il segretario La Malfa sottolinea come "sul piano delle
decisioni politiche il congresso si presenta come uno dei più difficili
e complessi nella ormai lunga storia del partito repubblicano. Esso dovrà
prendere atto che è in pieno svolgimento la crisi della coalizione
alla quale abbiamo partecipato dal 1995 in avanti e che questa crisi è
di portata tale da condizionare negativamente la capacità della
coalizione di guidare autorevolmente il paese". Il forte richiamo
dei repubblicani ad impegnarsi sul problema prioritario dell'occupazione
e la chiara denuncia dei limiti del centro-siinistra, vengono accolti
dal presidente del consiglio D'Alema che interviene ai lavori sottolineando
la validità della presenza del PRI e impegnandosi a realizzare
le richieste repubblicane in tema di politica dell'occupazione.
Con questi chiarimenti
il congresso si conclude confermando la continuità della collaborazione
del partito al governo, ma ribadendo la sua "autonomia politica e
programmatica", che li porterà a presentarsi con il loro simbolo
nei turni elettorali amministrativi e nelle elezioni europee dello stesso
anno.
Ma, nonostante l'apertura
di credito accordata dai repubblicani, l'eterogenea alleanza di centro-sinistra
mostra tutti i suoi limiti ed una palese incapacità ad avviare
un processo riformatore. Il partito repubblicano accentua le sue critiche
nei confronti della politica governativa e insieme ai socialisti, che
escono dal governo, e alla nuova formazione guidata da Cossiga, l'URP,
danno vita al "trifoglio" e determinano con il loro voto contrario
al decreto sulla "par condicio", che vorrebbe impedire alle
reti Mediaset di parlare di politica, la crisi del governo e la formazione
di un secondo governo D'Alema.
A gennaio del 2000
si svolgono a Chianciano i lavori del XLI congresso del partito, che registra
una crescente insoddisfazione dei repubblicani nei confronti dello schieramento
di centrosinistra."Il Congresso Ðdirà La Malfa nella sua relazione
introduttiva Ð parte dalla constatazione, fatta propria dal consiglio
nazionale, del progressivo esaurimento del respiro strategico dell'esperienza
dell'ulivo" e nella mozione conclusiva si impegnano i nuovi organi
eletti "ad avviare nel paese e con tutte le forze politiche italiane
inserite in Europa nelle tradizioni politico-culturali socialista e popolare
una approfondita riflessione ed un dialogo in vista della definizione
di un programma di governo per la prossima legislatura capace di assicurare
in prospettiva quel salto di qualità assolutamente indispensabile
per vincere le sfide poste dalla nuova situazione internazionale".
Dopo il risultato
negativo per la maggioranza di centro-sinistra nelle elezioni regionali
dell'aprile 2000, D'Alema rassegna le dimissioni e il Capo dello Stato
affida la formazione del nuovo governo a Giuliano Amato. Anche nei confronti
di questo governo i repubblicani si astengono dopo averne verificato l'inadeguatezza
ad affrontare i problemi dell'occupazione e degli investimenti e dopo
aver registrato l'insofferenza degli altri partiti della coalizione nei
confronti del PRI.
Il giudizio dei repubblicani
sull'esperienza di centrosinistra dell'intera legislatura è, alla
fine, estremamente negativo. La maggioranza ha bruciato nell'arco di cinque
anni tre governi, mostrandosi incapace di esprimere una chiara leedership,
ma anche incapace di affrontare i problemi reali per garantire lo sviluppo
del paese in conseguenza delle molte contraddizioni che contrappongono
i partiti della coalizione, espressione di valori e programmi tra loro
alternativi e inconciliabili.
La
segreteria di Francesco Nucara
Mentre la legislatura
si avvia alla fine, nel mese di gennaio del 2001 si svolge a Bari
il XLII Congresso del partito. Nonostante le perplessità avanzate
da una parte dei delegati, la maggioranza considera ormai chiusa per i
repubblicani l'esperienza di centrosinistra.
Nelle elezioni politiche,
che si svolgono nel mese di maggio, il PRI si presenta nella coalizione
della Casa delle libertà e dopo la vittoria elettorale partecipa
alla formazione del nuovo governo guidato da Silvio Berlusconi, assumendo
con Francesco Nucara il sottosegretariato al Ministero dell'ambiente,
mentre il presidente del partito, Giorgio La Malfa, è eletto alla
presidenza della commissione finanze della Camera.
Il 6 ottobre 2001
Giorgio La Malfa, dopo 14 anni, lascia la segreteria del partito per assumerne
la Presidenza. Il consiglio nazionale del partito elegge come nuovo segretario
nazionale l'on. Francesco Nucara.
Ad ottobre del 2002
il XLIII Congresso nazionale del partito che si svolge a Fiuggi conferma
le scelte del congresso di Bari e la collocazione del partito nell'alleanza
della Casa delle libertà, pur ribadendo l'irrinunciabile valore
della sua autonomia. Il consolidamento della presenza repubblicana è
confermato dalla ripresa delle pubblicazioni, a giugno del 2003,
de La Voce Repubblicana, sotto la direzione di Francesco Nucara,
dalla definizione di un organigramma operativo con la nomina di Italico
Santoro alla vicesegretaria nazionale e con i risultati elettorali dei
turni amministrativi, che registrano una nuova e combattiva presenza del
PRI nelle amministrazioni locali.
*******
Ad oltre cento anni
dalla sua costituzione l'unico simbolo immutato nel panorama politico
italiano rimane quello dell'Edera e del Partito repubblicano: indice che
le idee da cui questo partito trae alimento non sono mai appartenute al
volatile dominio degli slogan dal respiro corto o delle utopie astratte
la cui realizzazione poggia su basi artificiali e dunque periture, ma
alla consolidata tradizione della democrazia senza aggettivi che da Mazzini
in poi si è alimentata con il collettivo contributo di tanti uomini
e donne che hanno voluto partecipare con la loro azione e il loro pensiero
alla costruzione di un'Italia libera, democratica, laica e civile, ancorata
ai valori dell'occidente.
CONGRESSI
PRI DAL 1895 AL 2002
I Bologna
(1 novembre 1895)
II Firenze
(27 e 29 maggio 1897)
III Lugano
(8 - 9 settembre 1899)
IV Firenze
- Rifredi (1 - 3 novembre 1900)
V Ancona
(19 febbraio 1901)
VI Pisa
(6 - 8 ottobre 1902)
VII Forli'
(3 - 5 ottobre 1903)
VIII
Genova (22 - 24 giugno 1905)
IX Roma
(3 - 5 maggio 1908)
X Firenze
(9 -11 aprile 1910)
XI Ancona
(18 - 20 maggio 1912)
XII Bologna
(16 - 18 maggio 1914)
XIII
Roma (13 - 15 dicembre 1919)
XIV Ancona
(25 - 27 settembre 1920)
XV Trieste
(22 - 25 aprile 1922)
XVI Roma
(16 - 18 dicembre 1922)
XVII
Milano (9 - 10 maggio 1925)
I congressi
dell'esilio:
- Lione
(30 giugno - 1¡ luglio 1928)
- Parigi
(29 -30 giugno 1929)
- Annemasse
(28 - 29 marzo 1931)
- St.
Louis (27 -28 maggio 1932)
- Parigi
(23 -24 aprile 1933)
- Lione
(24 -25 marzo 1934)
- Parigi
(3 febbraio 1935)
- Parigi
(11 - 12 giugno 1938)
- Portsmouth
(9 -10 ottobre 1943)
Congresso
clandestino dell'Alta Italia Milano (5 dicembre 1943)
XVIII
Roma (9 - 11 febbraio 1946)
XIX Bologna
(17 - 20 gennaio 1947)
XX Napoli
(16 - 18 febbraio 1948)
XXI
Roma (5 - 8 febbraio 1949)
XXII
Livorno (18-21 maggio 1950)
XXIII
Bari (6 - 8 marzo 1952)
XXIV
Firenze (29 aprile - 2 maggio 1954)
XXV Roma
(16 - 19 marzo 1956)
XXVI
Firenze (20 - 23 novembre 1958)
XXVII
Bologna (3 - 6 marzo 1960)
XXVIII
Livorno (31 maggio - 3 giugno 1962)
XXIX
Roma (25 -29 marzo 1965)
XXX
Milano (7 - 10 novembre 1968)
XXXI
Firenze (11 - 14 novembre 1971)
XXXII
Genova (27 febbraio - 2 marzo 1975)
XXXIII
Roma (14 -18 giugno 1978)
XXXIV
Roma (22 - 25 maggio 1981)
XXXV
Milano (27 - 30 aprile 1984)
XXXVI
Firenze (22 - 26 aprile 1987)
XXXVII
Rimini (11 - 15 maggio 1989)
XXXVIII
Carrara (11 - 14 novembre 1992)
XXXIX
Roma (4 - 6 marzo 1995)
XXXX
Roma (9 - 10 - 11 aprile 1999)
XLI Chianciano
(28-29-30 gennaio 2000)
XLII
Bari (26 - 28 gennaio 2001)
XLIII
Fiuggi (25 - 27 ottobre 2002)
XLIV
Fiuggi (4 - 6 febbraio 2005)
XLV Roma
(30 / 31 marzo - 1° aprile 2007)
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