A proposito dello sviluppo e della ricerca scientifica Quando mi capita di leggere il pensiero ancora attuale di chi ci ha preceduto, a parte la soddisfazione di ritrovare questi scritti ancora vitali e stimolanti, mi viene di pensare che tutti noi forse dovremmo dedicarci di più a rafforzare la nostra cultura politica, senza la quale corriamo il rischio di isterilirci nella riproposizione di frasi e formule consunte; e dovremmo attingere al nostro patrimonio ideale e politico, per non dimenticarci che siamo noi i vessilliferi dei più alti princìpii a cui una società liberaldemocratica si ispira. E allora non possiamo non considerare anche un tema che fu già caro a Ugo La Malfa: quello della ricerca scientifica, perché a partire da questa si possono creare le premesse per uno sviluppo economico duraturo e l'avanzamento in campi strategici per il futuro del Paese. Le analisi attuali attribuiscono fino al 50% dell ‘aumento della crescita economica dell'ultimo mezzo secolo alle nuove conoscenze scientifiche. Ecco perché in Paesi che vogliono essere competitivi, che vogliono entrare nel club dei produttori di sapere, si investono risorse crescenti nella ricerca, come avviene-ad esempio- in Inghilterra. In Italia, invece, lo Stato non è generoso, nonostante che le linee-guida della politica scientifica e tecnologica parlino di sviluppo della conoscenza come di un valore intrinseco di ogni società; e della ricerca "come strumento per migliorare la qualità della vita dei cittadini". Non è pensabile che in Italia gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo restino inchiodati a poco più dell'1% del PIL, circa la metà della media europea (che noi contribuiamo ad abbassare). E' vero che si prevede che lo Stato dovrà incentivare l'interesse dei privati per la ricerca, attraverso forme di cofinanziamento pubblico-privato, che determineranno -secondo le stime del governo- un investimento globale dall'attuale 1,07% a oltre il 2% del PIL del prossimo quadriennio. Tuttavia, le risorse restano insufficienti, soprattutto -se è vero -come dichiarato da Berlusconi- che "ciò che abbiamo ereditato dai governi precedenti nel campo della ricerca è un disastro", per l'inadeguatezza del sistema strutturale e funzionale. Dati recenti parlano di solo 3,33 italiano che lavorano nel campo della ricerca, contro una media europea del 5,28% e un dato americano pari all'8,28%. Tra il 1991 e il 2000 (si legge nella recente relazione della Banca d'Italia) la quota dei prodotti ad alta tecnologia sul totale delle esportazioni è rimasta stabile (attorno all'8%), mentre nello stesso periodo in Germania è salita dal 12 al 15%; mentre in Francia dal 20 al 25%, e negli USA dal 26 al 30%. Per quel che riguarda , poi, le 50 società tecnologiche più promettenti d'Europa, dominano il campo francesi, inglesi, tedeschi, a cui si aggiungono svizzeri, scandinavi e olandesi. L'Italia non riesce a competere in questo campo per le ridotte dimensioni delle imprese, incapaci di esportare e di entrare in queste produzioni. Se non recupererà su questo fronte, rischierà di essere tagliata fuori e di trovarsi nel ruolo di Paese costretto a esportare una maggior quantità di merci a prezzo più basso di quello della concorrenza, per finanziare il proprio sviluppo. Il che significa che un'economia "meno intelligente" ci condannerà ad essere più poveri, a meno che non riusciamo a mettere tra le priorità nazionali quella della ricerca, che è indubbiamente una grande scommessa politica e un investimento necessario , anche da parte delle grandi imprese, che non sono sufficientemente presenti su questo fronte. E' vero che -come dice un economista- il capitalismo italiano ha una vocazione alla "rincorsa frenata": siamo abituati, cioé, a inseguire, non a fare noi l'andatura. Quindi occorre sollecitare i politici nazionali perché varino leggi che inducano gli imprenditori a investire di più. Il tema della ricerca ci porta poi naturalmente ad affrontare quello della scienza e della responsabilità degli scienziati e dei politici. Tempo fa, un giornalista della rivista Keiron chiedeva al prof. Boncinelli, genetista di fama internazionale che frequenta spesso Forli' e i seminari dell'associazione "Nuova civiltà delle macchine", se è concreto il rischio che la scienza disarcioni la politica in questo terzo millennio, e che le vere scelte sulla nostra vita possano venir fatte nei laboratori, e non nelle aule dei Parlamenti. Lo scienziato rispondeva che, dati i costi elevatissimi della ricerca, questa non può fare a meno dell'economia e del profitto; contrariamente a quanto sostengono alcuni filosofi, che parlano del prossimo avvento di una scienza dominante. si ha comunque la sensazione che la ricerca proceda più velocemente della politica, e che le legislazioni nazionali arranchino ancora interrogandosi sulla liceità delle scoperte, arrivando così quasi sempre in ritardo. Occorre , allora, porsi il problema di governare questo processo, perché la scienza non debba provare la tentazione di essere essa stessa elemento di potere; e perché prevalga, sui principii economici, il principio di responsabilità. Non vogliamo il dominio della tecnocrazia, cioé di quel potere che sfrutta conoscenze elitarie per il proprio interesse. Però non va nemmeno demonizzata la tecnologia: il problema cruciale, che non va perso di vista, è di trovare il modo di governare i suoi sviluppi e le sue applicazioni. Occorre, cioé, un controllo democratico delle tecnologie, un dialogo tra scienza e umanesimo, che è la condizione indispensabile per affrontare i grandi rischi che corre oggi la democrazia: quelli di una deriva tecnocratica o, all'opposto, di una regressione luddista. Allora, è vero che oggi alla società vengono posti così tanti problemi e di tale portata, che è anche difficile per noi repubblicani esplicare un'azione politica su più fronti, data l'esiguità delle nostre forze. Ma non possiamo esimerci dall'intervenire su quelli ritenuti più corrispondenti al nostro patrimonio ideale e politico. Allora perché il PRI non interviene ancora sul tema dello sviluppo e della ricerca (ricorderete che l'unico emendamento alla Finanziaria presentato dal sen. Del Pennino, che invitava a considerare una priorità quella della ricerca scientifica, è stato rigettato senza nemmeno discuterlo; e ciononostante, il partito ha votato a favore di quella finanziaria "democristiana"); perchè il PRI, dicevo, non interviene ancora, sostenendo che un governo, se vuole lo sviluppo del Paese e se non vuole una scienza addomesticata e reticente (perché asservita alle multinazionali), deve preoccuparsi di far crescere i finanziamenti ben oltre quell'1,04% del PIL? Perché...una qualche inquietudine me la mettono gli articoli 19 e 20 della Finanziaria, che destrutturano la presenza del pubblico nel settore della ricerca di base, indicando la strada di una "privatizzazione" ampia e priva di qualsiasi vincolo rispetto alla natura degli Enti e alla loro missione, togliendo così allo Stato il suo ruolo di presidio in campi delicatissimi e fondamentali. Il mio non è un atteggiamento statalista; però credo debba essere lo Stato, cioé la politica, a decidere per il bene dei cittadini, in nome di principii superiori a quelli dell'economia. Si pensi che il congresso dei premi Nobel ad Heidelberg, culminato con la stesura di un "Manifesto per la libertà della pratica scientifica", era stato finanziato da un'importante società farmaceutica: siamo così sicuri che quegli scienziati facciano una ricerca libera e disinteressata? Io mi sentirei più garantita da una ricerca finanziata dallo Stato, che non sentirei asservita alle priorità dell'impresa, al culto dell'efficienza e del mercato. Mi si obietterà che i costi sono elevatissimi: allora si trovino formule capaci di garantire una ricerca libera, pur ricorrendo ai privati. Questo della guida dei processi tecnologici e delle innovazioni, quindi del controllo della storia, in definitiva, é un tema politico scottante, che non possiamo non affrontare in modo laico, senza interferenze oscurantiste; ed é un tema di grande rilevanza culturale: NON VOGLIAMO UN MODELLO DI SOCIETA' E DI SVILUPPO CULTURALE SU BASI SOLO EFFICIENTISTE E CHE RISPONDE SOLO ALLE LOGICHE DEL PROFITTO. Prof. Mariaconcetta Schitinelli 8/06/2002 |